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Alla ricerca di un pensiero tecnologico in Cina13 min read

Alla ricerca di un pensiero tecnologico in Cina

Un estratto da Cosmotecnica di Yuk Hui, pubblicato in Italia da Nero Editions.

Pubblichiamo un estratto da “Cosmotecnica” di Yuk Hui, pubblicato in Italia da NERO Editions. Ringraziamo l’autore e l’editore per la gentile concessione.

DAO E COSMOS: IL PRINCIPIO DELLA MORALE

Alla questione della tecnica i Cinesi avevano già dedicato un testo classico durante il periodo ionico (770-211 a.C.). In tale testo, non troviamo soltanto dettagli sulle varie tecniche – per costruire ruote, case e così via – ma anche il primo discorso teoretico sulla tecnica. Il classico in questione è il Kao Gong Ji (考工記, Uno studio delle tecniche, 770-476 a.C.), dove leggiamo:

Dotandosi del tempo determinato dal cielo, dell’energia [, ch’i] provvista dalla terra, di materiali di buona qualità, così come di un’abile tecnica, qualcosa di buono può essere prodotto attraverso la sintesi dei quattro. [天有時, 地有氣, 材有美, 工有巧。合此 四者, 然後可以為良]

Secondo questo testo, dunque, esistono quattro elementi che, congiunti, determinano la produzione. I primi tre sono dati dalla natura e non sono quindi controllabili. Il quarto, la tecnica, è sì controllabile – ma anche condizionato dagli altri tre: tempo, energia e materiale. Quello umano è l’ultimo degli elementi, e il suo modo d’essere è situazionale. Inoltre, la tecnica non è data, ma deve essere imparata e migliorata.

Com’è noto, anche gli aristotelici avevano le loro quattro cause: formale, materiale, efficiente e finale. Dal loro punto di vista, la produzione inizia con la forma (morphē) e termina con la realizzazione di tale forma nella materia (hylē). Il pensiero cinese, invece, aveva comunque già saltato la questione della forma per arrivare a quella dell’energia (ch’i, che letteralmente significa «gas»): qui la tecnica non è proposta come il fattore determinante, ma piuttosto come una maniera di facilitare il ch’i. In questa visione energetica del mondo, gli esseri sono congiunti in un ordine cosmico che comunica attraverso una coscienza comune, e la tecnica riguarda l’abilità di mettere sapientemente insieme quelle cose che riecheggiano l’ordine cosmico – che, come vedremo, è essenzialmente un ordine morale.

In La questione della tecnica, Heidegger ripercorreva le quattro cause aristoteliche e relazionava la causa efficiente con la possibilità della rivelazione. Nella concezione heideggeriana delle quattro cause, la tecnica è in sé poiesis (in entrambi i sensi di produzione e arte poetica). Un simile concetto di tecnica può sembrare simile a quello cinese, ma esiste una differenza fondamentale: contrariamente al concetto cinese, che si relaziona con la realizzazione del «bene morale» del cosmo, l’interpretazione heideggeriana della tecnica di Aristotele vede questa come rivelazione della «verità» (alētheia) e disoccultamento dell’Essere. Senz’altro quello che Heidegger intendeva con verità non corrisponde alla verità logica, quanto piuttosto a un disvelamento della relazione tra il Dasein e il suo mondo, una relazione solitamente ignorata nella percezione del mondo come semplice presenza. Nonostante ciò, è la ricerca della morale da un lato e della verità dall’altro a caratterizzare le tendenze divergenti tra la filosofia cinese e quella greco-tedesca. Sia la Grecia che la Cina avevano le proprie cosmologie, le quali a loro volta lasceranno una traccia nelle rispettive disposizioni cosmotecniche. Così come insisteva il filosofo Mou Zongsan (1909-1995), la cosmologia cinese era tanto un’ontologia morale quanto una cosmologia morale, intendendo con questo che non si originava come una filosofia della natura, ma come una metafisica morale, così come si afferma nel Qian (乾文言) dell’I Ching:

La morale dell’uomo superiore è identica a quella del Cielo e della Terra, il suo splendore è identico a quello del sole e della luna, il suo ordine è identico a quello delle quattro stagioni, le sue buone e cattive sorti identiche a quelle degli esseri spirituali.

Il significato del termine morale nella cosmologia confuciana non ha nulla a che vedere con un insieme di leggi morali eteronome, ma riguarda la creazione (il significato letterale di Qian) e la perfezione della personalità. È per questa ragione che Mou distingue la metafisica morale cinese dalla metafisica della morale, dal momento che quest’ultima è soltanto un’esposizione della morale in termini metafisici, mentre a suo avviso è la metafisica stessa che deve basarsi sulla morale per essere possibile.

Rispetto alla filosofia greca presocratica e classica coeva del periodo della storia cinese che stiamo considerando, né la questione dell’Essere né quella della technē sono questioni filosofiche centrali. Piuttosto che l’«Essere», ciò che sta a cuore tanto all’insegnamento confuciano quanto a quello daoista è il tema del «Vivente», inteso come la possibilità di condurre una vita morale o buona. Come François Jullien ha tentato di spiegare nel suo Philosophie du vivre, tale tendenza ha condotto la Cina a una mentalità completamente diversa.

È innegabile come nell’antica Cina siano esistiti alcuni filosofi della natura, in particolare nel daoismo e nel suo ulteriore sviluppo «tecnico», l’alchimia. Ma una simile filosofia della natura non indugia in speculazioni sugli elementi materiali basici del mondo, così come succedeva con Talete, Anassimandro, Empedocle e altri: piuttosto, si rivolgeva a una forma organica o sintetica di vita – organica nel senso in cui è soggetta a una causalità reciproca, dove l’universo è considerato come una totalità di relazioni. Nel confucianesimo, il Dao è riconosciuto come coerenza tra l’ordine cosmologico e quello morale, e tale coerenza è chiamata zi ran (自然), spesso tradotto con «natura». Nel cinese moderno tale termine si riferisce all’ambiente, comprendendo gli animali selvaggi, le piante, i fiumi e così via, ossia elementi che sono già dati; ma significa anche attuare e comportarsi in armonia con il sé e senza pretesa, e dunque lasciare che le cose siano così come sono. Questo sé, in ogni caso, non è una tabula rasa, ma emerge ed è limitato da un certo ordine cosmico dal quale si nutre, il Dao. A sua volta, il daoista «Zi ran è la legge del Dao» (道法自然) vale tanto come massima quanto come principio di una filosofia della natura. Questi due concetti di Dao nel confucianesimo e nel daoismo mantengono un’interessante relazione reciproca, dal momento che da un lato (e secondo le letture convenzionali) sembrano essere in tensione tra loro (il daoismo, nei testi di Laozi [-531 a.C.] e Zhuang-zi [370-287 a.C.] è molto critico rispetto a qualsiasi ordine imposto, mentre il confucianesimo tenta di affermare diversi tipi di ordine), mentre dall’altro sembrano essere supplementari, come se uno si interrogasse sul «cosa», mentre l’altro sul «come». Tuttavia, come sosterrò in seguito, entrambi incarnano ciò che chiamo una «cosmotecnica morale»: un pensiero relazionale del cosmo e dell’essere umano, dove la relazione tra i due è mediata da esseri tecnici. Non è dunque mia intenzione leggere tali relazioni tra Dao ed esseri come una filosofia della natura, ma piuttosto comprenderle come una possibile filosofia della tecnologia propria tanto del confucianesimo quanto del daoismo. Secondo questa lettura, dunque, nella filosofia cinese Dao sta per l’ordine supremo degli esseri, e la tecnica deve essere compatibile con esso per poter raggiungere il suo massimo standard, che si esprime come l’unificazione di Dao e Qi (道器合一). Come notato nell’introduzione, nel suo senso moderno Qi significa «strumento», «utensile», o più genericamente «oggetto tecnico». I primi daoisti, come Laozi e Zhuang-zi, credevano che «diecimila creature» (wan wu, 萬物) emergessero dal Dao. Scrive Laozi:

La Via [Dao] ha prodotto uno; uno ha prodotto due; due hanno prodotto tre; tre hanno prodotto le diecimila creature [道生一, 生二, 二生三, 三生萬物].

Il Dao, dunque, è presente in migliaia di esseri in quanto de (, «virtù»), e nelle forme che assume non è separato da essi, ma immanente. La consueta traduzione di de con «virtù» è tuttavia discutibile, dato che nel Tao tê ching (o Laozi) questo termine non ha la connotazione di virtù o perfezione morale, ma significa piuttosto l’armonia originaria o la forza produttiva del cosmo. Dao è presente ovunque e in ogni essere, come sostiene Zhuang-zi, dal momento che ciò che crea gli esseri non è separato da essi (物物者與物無際). Per Zhuang-zi, la presenza del Dao negli esseri prende la forma del ch’i (: come menzionato in precedenza, tale parola significa letteralmente «gas», ma è spesso tradotta con «energia»). Questa relazione tra Dao e Essere, o Dao e ch’i, fu esplicitata da Wang Bi (王弼, 226–249), studioso della dinastia Wei Jin, i cui commentari sul Laozi servirono come base per lo studio del daoismo per secoli, almeno fino alla scoperta della versione più antica. Wang Bi desumeva quattro coppie analogiche, ognuna delle quali era considerata sostenere una relazione simile: (1) Dao-Qi (道器); (2) Nulla-Essere (無有); (3) Centro-Periferia (本末); e (4) Corpo-Strumento (體用). L’unità di ciascuna coppia incarna la visione olistica della filosofia cinese. Su questo punto, in effetti, esiste un consenso: anche se tra i due componenti della coppia c’è differenza – come ad esempio tra Dao e Qi – essi non possono essere separati come se si trattasse di due entità distinte.

Nella sezione «Intelligenza viaggia verso nord», Zhuang-zi, come Spinoza, annuncia che Dao è onnipresente:

Dong-guo-zi domandò a Zhuang-zi: «Dov’è ciò che chiamate il Tao?». «Ovunque», disse Zhuang-zi.

«Bisogna localizzarlo», riprese Dong-guo-zi.

«In questa formica», disse Zhuang-zi.

«E più in basso? [In una cosa così bassa?]» «In questo filo d’erba.»

«E più in basso? [Ma è ancora più basso!]» «In questa tegola.»

«E più in basso ancora? [Come può essere così basso?]»

«In questo letame [nel piscio e negli escrementi]», disse Zhuang-zi. Dong-guo-zi non aggiunse altro.

Da qui si potrebbe facilmente concludere che una simile concezione del Dao introduca una filosofia della natura. Inoltre, anche se potrebbe sembrare sorprendentemente anacronistico, tale filosofia della natura avrebbe meno affinità con ciò che sappiamo delle filosofie ioniche che con quanto apparve molto dopo in Kant, Schelling e altri tra i precursori del romanticismo – vale a dire, il pensiero della forma organica. Nel capitolo 64 della sua Critica della facoltà di giudizio, Kant propone un’esplorazione della questione della forma organica che si discosta dalla sottomissione meccanica alle categorie a priori: al contrario, essa insiste sulla relazione parte-tutto negli enti, e sulle relazioni reciproche fra parti e totalità.

Kant si interessò a tale questione grazie alle sue ricerche sulle scienze naturali dell’epoca, e il concetto di forma organica sarà ulteriormente sviluppato dai primi romantici. Ma questa concezione della vita, della natura e del cosmo come un ente organico era già presente nel daoismo fin dalle sue origini, e da sempre funzionava in esso come il principio di ogni essere.

Inoltre, Dao non è un oggetto particolare, così come non è il principio di un particolare genere di oggetti: è presente in ogni essere, e sfugge a qualsiasi reificazione. Dao è das Unbedingte, l’«incondizionato» comune ai progetti idealisti del XIX secolo che tentavano di trovare il fondamento assoluto del sistema, ossia quel principio primo (Grundsatz) che fosse assolutamente indipendente. Secondo Fichte questo era l’Io, in quanto possibilità dell’incondizionato; nella sua prima Naturphilosophie, Schelling muove dall’Io (utilizzato quando ancora era discepolo di Fichte, tra 1794 e 1797) alla Natura (1799, in Primo abbozzo di un sistema di filosofia della natura). Nel Primo abbozzo, Schelling raccoglie la distinzione spinoziana tra natura naturans e natura naturata, intendendo la prima formula come l’infinita forza produttiva della natura, e la seconda come il suo prodotto. La natura naturata emerge quando la forza produttiva è intralciata da un impedimento, così come si produce un vortice quando la corrente incontra un ostacolo. In questo senso, l’infinito si inscrive nell’essere finito, così come l’anima del mondo descritta da Platone nel Timeo è caratterizzata da un movimento circolare. Troviamo poi un’ulteriore sviluppo della filosofia dell’organismo negli scritti di Whitehead, che ebbero ampia risonanza in Cina all’inizio del XX secolo. Compreso in tal modo, il Dao è l’incondizionato che fonda la perfezione condizionata di tutti gli esseri, inclusi gli oggetti tecnici. Certamente, così come immaginava Dong-guo-zi, il Dao deve esistere nelle forme più elevate e negli oggetti superiori del mondo, anche se, come abbiamo visto, Zhuang-zi distrusse le sue grandi illusioni situando il Dao anche negli oggetti più infimi e persino indesiderabili della vita umana: le formiche, l’erba, le tegole di terracotta, addirittura gli escrementi. La ricerca del Dao risuona con quello che Confucio chiama «il principio del cielo» (天理), una formula usata anche da Zhuang-zi. In questa specifica istanza, natura e morale si incontrano, ed entrambi gli insegnamenti convergono su un punto: vivere è mantenere una relazione sottile e complice con il Dao, anche senza conoscerlo pienamente.


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È autore di On the Existence of Digital Objects (2016), Recursivity and Contingency (2019) e Art and Cosmotechnics (2021). Attualmente insegna alla City University of Hong Kong. È tra i fondatori del Research Network for Philosophy and Technology.

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