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Brandizzare la rivoluzione5 min read

Questo articolo è estratto da Dylarama, la nostra newsletter settimanale a cura di Mine Studio.
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Questa settimana si è concluso il Pride Month, il mese dell’orgoglio LGBTQI+. Il primo, dal 1970, a vedere le sue manifestazioni esplicarsi in forme di aggregazione e di lotta inedite, a causa dell’emergenza sanitaria internazionale. Stanziali o virtuali, gli eventi del Pride 2020 sono arrivati persino su Animal Crossing e su Netflix, mentre New York è stata l’unica città a non rinunciare alla sua marcia, in occasione del 50° anniversario dalla prima parata in memoria dei moti di Stonewall.

 

È stato un Pride diverso, che ha dovuto ricalibrare le sue energie e riorganizzarle per amplificare la sua voce sui canali a disposizione: internet, i social. Ma anche il marketing e l’advertising. Il brand activism quest’anno, infatti, è stato più forte che mai e ha visto aziende e marchi costituirsi, da una parte, come validi alleati in grado di assicurare visibilità ai diritti della comunità LGBTQI+, dall’altra come retailer della manifestazione, con capsule collection e prodotti in edizione limitata dedicati alla celebrazione dei tutti gli orientamenti sessuali e le identità di genere.

 

C’è Coca-Cola, che l’anno scorso ha festeggiato il Pride a Milano con carro e magliette brandizzati, e che quest’anno ha invece deciso di mettere a disposizione i propri canali social per il talk #PrideNotPrejudice, chiedendo alla content creator Muriel De Gennaro di rispondere ai dubbi degli utenti sui temi legati a sessualità e gender identity. Il risultato è un video molto semplice e utile, che vi lascio qui. C’è anche Diesel, che per il secondo anno consecutivo ha lanciato una capsule collection arcobaleno completa di costumi, magliette, mutande e accessori, insieme a un cortometraggio che racconta la storia della ragazza transgender Francesca. Quest’ultimo mi ha colpita particolarmente: se da un lato non ho potuto fare a meno di constatare l’inevitabile incalzare delle lacrime durante la visione del corto, i ripetuti close-up sul logo del pantalone indossato da Francesca mi impedivano di vivere l’esperienza appieno, riportando costantemente la mia mente agli  intenti più materiali dietro a quel video.

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Il brand activism rischia di diventare un'operazione ipocrita se non combacia con le politiche aziendali e di incentivare lo slacktivism da parte dei consumatori.

Questa esperienza, che arriva dopo mesi di pubblicità su social distancing e ripartenza, e settimane di discussione sul ruolo (e le responsabilità) di aziende e brand nella lotta al razzismo sistemico, mi ha imposto di fermarmi a riflettere sullo stato del brand activism oggi, sulla sua effettiva autenticità e sulle forme possibili di alleanza per aziende e brand che vogliono affermare la propria identità sul mercato anche in virtù dei valori sociali a cui desiderano contribuire.

 

Come sottolinea Inside Marketing, per un’azienda decidere di fare brand activism non è solo una scelta importante, ma anche irreversibile: si tratta di passare da un sistema chiuso a un sistema aperto, in dialogo non solo con i consumatori ma anche con attivisti e istituzioni, e da una prospettiva marketing-driven a una visione society-driven. Esistono diverse forme di brand activism, diversi approcci e motivi per i quali un brand decide di compiere questo passo: quello più popolare sembra essere veicolato dal tentativo di conquistare le nuove generazioni, considerate le più sensibili ai temi sociali e le più attente al comportamento dei brand da cui decidono di acquistare. Quest’ultimo dato è tendenzialmente vero, ma non del tutto.

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Negli ultimi anni il brand activism è diventato sempre più popolare tra le aziende determinate alla costruzione di una brand identity virtuosa, ma si è anche rivelato controproducente per tutte quelle realtà che hanno scelto di adottarlo solo per cavalcare l’onda dei temi sociali più in vista, senza far corrispondere fatti concreti alle parole trasmesse su profili social e pubblicità. Questo articolo de Linkiesta fa il punto della situazione partendo da alcuni dei marchi più noti che hanno manifestato la propria alleanza con il movimento Black Lives Matter dopo l’omicidio di George Floyd, mentre questo bellissimo pezzo di Vulture intitolato The Revolution Will Not Be Branded, chiama in causa le realtà che in quei giorni hanno veicolato messaggi di solidarietà, pur avendo una storia aziendale profondamente problematica dal punto di vista delle discriminazioni razziali (e non solo). Come osserva l’autore Alex Jung, in questi casi il brand activism non solo rischia di diventare un’operazione ipocrita se non combacia con le reali politiche aziendali, ma anche di contribuire alla normalizzazione dello slacktivism (attivismo pigro), deviando il discorso dalla necessità di ridiscutere il nostro sistema politico-economico all’idea che basti esprimere messaggi di solidarietà o acquistare prodotti dai brand considerati etici per sentire di aver fatto la propria parte (una preoccupazione espressa già due anni fa su Vox in merito alla “brandizzazione” del Pride).

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Tirando le somme, questa settimana si è concluso il Pride Month ed è ufficialmente iniziato il mese che vedrà molte grandi aziende, tra cui North Face e Patagoniaboicottare Facebook aderendo alla campagna Stop Hate For Profits, contro la diffusione di contenuti che trasmettono messaggi di odio e di disinformazione. Insomma, qualcosa mi dice che il brand activism è qui per restare e non è necessariamente una brutta notizia. Noi continueremo a seguire lo sviluppo degli eventi e a tenervi aggiornati.

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Nata a Roma nel 1989, ma con il cuore tra le montagne. Lavora come content editor freelance, gestisce un archivio fotografico nostalgico su Instagram e collabora con diverse riviste online, tra cui Cosmopolitan e Vanity Fair.

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