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Il solarpunk è solo un’utopia?13 min read

Il solarpunk è solo un’utopia?

Il movimento artistico e culturale che sogna di superare il capitalismo e la crisi climatica attraverso l’ottimismo verso la tecnologia, può darci qualche spunto per un mondo più sostenibile?

di Laura Carrer

Nel 2008, su un blog chiamato Republic of the Bees viene descritta per la prima volta una nuova visione di presente e futuro: il Solarpunk. Sulla scia degli altri generi che uniscono al suffisso la parola -punk (Cyberpunk, Steampunk), in segno di contrapposizione, il movimento si distanzia in maniera netta dai suoi predecessori per la possibilità di immaginare non solo un futuro diverso, ma anche un immediato presente più praticabile, per usare una parola molto in voga: più sostenibile.

Siamo e saremo sempre debitori alla letteratura, all’arte, alla tecnologia. Attraverso di esse riusciamo a immaginare e dare forma a mondi e luoghi alternativi, diversi da quelli che abbiamo sotto gli occhi. Per citare una delle più famose e importanti scrittrici di fantascienza, Ursula K. Le Guin, «si può dire che qualunque cosa può succedere [nel futuro] senza paura di essere contraddetto da chi ci nascerà. Il futuro è un laboratorio sicuro, sterile per sperimentare le idee, un mezzo per riflettere sulla realtà, un metodo».

Ma come si auto-definisce il movimento solarpunk? La risposta, per così dire, semplice è: come un movimento culturale che interseca politica, estetica e stile di vita e si muove su una prospettiva di superamento del capitalismo, in chiave ottimistica e propositiva nei confronti della tecnologia. All’inizio del 2020 è stato pubblicato un manifesto che ne traccia i contorni dentro i quali si è mosso nell’ultimo decennio. Si legge subito che il movimento si interroga per rispondere alla domanda da un milione di dollari: «come sarebbe una società sostenibile e cosa dobbiamo fare per arrivarci?». La teoria solarpunk si racconta quindi attraverso l’ecologia sociale, la democratizzazione della tecnologia e il Sole come energia cruciale per il benessere collettivo e della Terra. Vede la sua interpretazione pratica in grandi metropoli, simili a quelle odierne, dove però si intersecano e accavallano trasformatori di energia in continuità con il regno vegetale, selezionato per favorire l’immagazzinamento di luce naturale e per fornire l’apporto di cibo necessario al sostentamento della popolazione che vi abita. Bisogna però precisare che non si sta parlando di prestigiose strutture esclusive ed escludenti, create da grandi archistar nelle città più costose al mondo, cavalcando l’onda del greenwashing.

Il solarpunk si muove tra bellissime rovine tecnologiche dalle quali emergono cascate naturali di vegetazione spontanea, dove l’inquinamento e il traffico sembrano essere solo un bruttissimo ricordo. A livello estetico può sembrare un mix tra Art Nouveau, con la sua visione vitalistica e rigenerante del mondo, con le ambientazioni dei film senza tempo di Hayao Miyazaki. Non si tratta di ricostruire un mondo nuovo ma di abbandonare gli eccessi e gli sprechi di quello attuale facendo ricorso a un massiccio utilizzo della filosofia DIY. A livello immaginifico è un orizzonte ricco di veri e propri templi ed è soprattutto mosso da una profonda speranza nei confronti dell’umanità. 

Androidi e tecnologia sono al servizio degli esseri umani, risultato finale di un processo di scrematura volto alla ricerca della loro più completa sostenibilità. L’obsolescenza programmata non è contemplata, finalmente.

«Siamo solarpunk perché l’ottimismo ci è stato tolto e stiamo cercando di riprendercelo» si legge sul manifesto del movimento.

Per abolire gli sprechi, anche il fast fashion – causa di consumo di risorse ambientali e di inquinamento dell’aria e dell’acqua – non potrebbe esistere in un orizzonte del genere. In tal senso si trovano su internet molti esempi di moda solarpunk, con indumenti riutilizzati, riqualificati e volutamente pacchiani, ricchi di gioielli creati con scarti e materiali di riciclo.

Nel contest solarpunk organizzato nel 2019 dallo studio di game design e motion graphic Atomhawk, l’opera che ha vinto il primo premio è ambientato nel 2060 e raffigura un’antica fattoria norvegese tradizionale, abitata da un contadino e da sua figlia. Mentre lui rappresenta il passato e la tradizione, sua figlia rappresenta il futuro e l’ottimismo, due concetti che vanno mano nella mano. Il governo mette a disposizione i campi per la coltivazione sotto forma di sussidio a condizione che enormi turbine per l’energia eolica possano volarci sopra. L’atmosfera è molto piacevole, i colori sono caldi, l’importanza della natura è evidente, la luce rassicurante infonde gioia e fiducia.

In queste ambientazioni il solarpunk fonde tecnologia moderna e antica con una differenza fondamentale rispetto a ciò che, ad esempio, hanno sempre fatto cyberpunk e steampunk. Il presente e il futuro non sono immaginati come una distopia, il rapporto con il passato è di complicità e non di oppressione.

Si legge ancora nel manifesto: «Siamo solarpunk perché l’ottimismo ci è stato tolto e stiamo cercando di riprendercelo». In altre parole, se è vero che viviamo alle pendici di una potenziale e imminente catastrofe, la reazione non può essere di resa o accettazione, c’è bisogno di agire in maniera radicale e per farlo, bisogna credere nel potere delle proprie azioni, in un certo senso è necessario sognare. D’altra parte il solarpunk racchiude in sé questo dualismo tra l’essere una provocazione astratta e una proposta programmatica concreta.

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Un aspetto estremamente interessante dell’ascesa di questo movimento assieme attivistico, estetico e letterario è il luogo nel quale si è originato, il Brasile. Non negli Stati Uniti come i suoi già citati predecessori. Perché nasca in questo paese non è così ovvio da pensare: molto spesso dimentichiamo che l’accumulazione che la società capitalista rende possibile esiste anche grazie all’utilizzo e allo sfruttamento di energia nonché di interi territori. America Latina, India o Asia sono luoghi nei quali i Paesi occidentali già da tempo si dedicano alla depredazione di terre alla popolazione autoctona o all’utilizzo di piante dal patrimonio genetico modificato. Senza troppe preoccupazioni, infatti, sono attori principali di una neocolonizzazione brutale. Una delle molte risultanze di questo processo è anche l’aumento di possibili conflitti ambientali basati sulla rottura dell’equilibrio naturale. 

In questo senso le premesse di un movimento come questo sono convincenti: decolonizzare l’energia o la terra potrebbe rappresentare l’inizio di un percorso di liberazione e di immaginazione di un presente e futuro diversi, attraverso il radicale sconvolgimento della struttura sociale ed economica accettata finora dai più.

Le tecnologie immaginate nel mondo solarpunk, come detto, non sono da costruire o da pensare, perché esistono già. Vanno solo utilizzate per un fine che sia il più possibile direzionato a favorire un rapporto equilibrato tra esseri umani e natura che li circonda. Si ipotizza un’alternativa ai modelli centralizzati e aziendali di generazione, distribuzione e consumo di energia cercando di posticipare la fine del mondo.

Il riuso, il riciclo e la riparazione di qualsiasi prodotto o cosa, che sia piccola o gigante, serve ad abbandonare il modello produzione, crescita, accumulazione di capitale che ha contraddistinto la società occidentale dall’età Moderna in avanti.

Il solarpunk è strettamente connesso poi anche all’idea radicale di “post work society”, una società dove il concetto di lavoro è completamente ridimensionato portando all’automazione di molti settori di produzione. In termini semplici, per assestarci su un nuovo equilibrio, sarebbe necessario anche liberarsi del limite e del controllo che il lavoro ci impone praticamente per tutta la vita. Ridimensionare il significato dell’etica del lavoro e la sua importanza nel definirci in quanto individui.

L’antropologo David Graeber fa un’interessante osservazione nel libro Bullshit Jobs, uscito nel 2018. Poiché l’automazione del lavoro non ha funzionato come invece veniva paventato all’inizio del ‘900, è stata inevitabile la nascita di “lavori di merda”, ovvero mansioni che non hanno una vera e propria utilità per la società, se non quella di perpetuare l’esistenza di un circolo vizioso tossico. Sono i lavori che ci fanno sentire inutilmente importanti o che fanno sentire importanti i nostri superiori, oppure quelli che risolvono solo per un periodo limitato un determinato problema creato, magari, da una tecnlologia superflua, quelli che inducono al bisogno di qualcosa di cui non si ha bisogno, oppure, semplicemente quelli che non servono a un bel niente, se non a costringere qualcuno a fare qualcosa. Per intenderci, tutto quello che sarebbe cancellato da un reddito di base universale, cancellando anche l’utilizzo di risorse che potrebbero essere destinate per altro o meglio ancora lasciate in pace.

Per ciò che cerca di realizzare, il solarpunk è riconducibile ad alcune correnti politiche come l’anarchismo comunitario o l’ecosocialismo anche se, esattamente come nello steampunk, c’è una velata incapacità di definire il modo in cui tutto ciò possa avvenire o avverrà nel breve periodo. Mi spiego meglio. Il riuso, il riciclo e la riparazione di qualsiasi prodotto o cosa, che sia piccola o gigante, serve ad abbandonare il modello produzione-crescita-accumulazione di capitale che ha contraddistinto la società occidentale dall’età Moderna in avanti. Ma tutti i movimenti finora avvicendatisi si sono focalizzati su un futuro distopico e apocalittico, oppure su un rimescolamento di tempi e luoghi connotati da specifiche tecnologie e conflittualità. Guardando con il senno di poi è lecito chiedersi se la nascita di un ulteriore movimento/genere non sia dovuta a numerosi cambiamenti della società.

Quando negli anni Ottanta William Gibson ha scritto Neuromancer ciò che riportavano come idea di futuro prossimo era sostanzialmente il presente che stiamo vivendo ora, quarant’anni dopo: mega corporation che monopolizzano il mercato tecnologico (e quindi ormai tutti i mercati), sorveglianza e controllo di massa, scontro tra esseri umani e intelligenze artificiali, post-capitalismo, automazione. A tenere tutto quanto insieme è il filo conduttore del conflitto sociale, della lotta tra bene e male e dunque tra chi vuole il cambiamento e chi, più potente e guidato da interessi, lo nega con la forza.

Certo, il conflitto sociale dipinto negli anni Ottanta e quello di ora sono completamente diversi e forse le utopie contemporanee e la nostra immaginazione non riescono più a basare il fulcro di tutto il discorso su qualcosa che preveda un vero conflitto. Ma come sarà possibile andare verso un mondo solarpunk, per quanto sia allettante, senza un contrasto netto tra “buoni e cattivi”? Senza che le generazioni future pensino al conflitto sociale e a ciò che può significare nella loro vita, bombardata da continui e sempre maggiori incoerenze, davanti all’esaurimento del modello che fino ad ora ci ha ingabbiati? 

Se guardiamo al presente e alle politiche messe in atto per salvaguardare il pianeta e l’umanità, siamo molto lontani. Il solarpunk, come qualsiasi altro movimento con queste caratteristiche, rimarrà sempre un’utopia finché si scontrerà con l’inconfutabilità di questa sentenza che probabilmente avrete già letto da qualche parte: «è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo». Ma restiamo positivi.


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Ricercatrice e giornalista freelance si occupa di tecnologia e dell'impatto che questa ha sulla società, con focus sulla sorveglianza di stato e sulle ripercussioni che le piattaforme digitali hanno su alcuni gruppi sociali.

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