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Lasciare il lavoro dipendente per divenire indipendenti16 min read

Lasciare il lavoro dipendente per divenire indipendenti

Ho scelto il 31 dicembre come data per le mie dimissioni e dopo dieci anni da dipendente, ho deciso di diventare indipendente.

di Flavio Pintarelli

Quitters è la serie di Siamomine che racconta le Grandi Dimissioni attraverso i racconti e le testimonianze di chi ha scelto di lasciare il proprio lavoro e di cambiare una routine insostenibile che sembrava irreversibile.

Sono un tipo che ama essere simbolico. Per questo motivo ho scelto il 31 dicembre come data per le mie dimissioni. Se devo iniziare una nuova vita, ho pensato, è opportuno che la scelta coincida con un momento apicale del calendario. Dunque ci può essere un giorno migliore di capodanno per inaugurare una carriera come lavoratore indipendente?

Calcolare da quanto tempo faccio il libero professionista, per esempio, sarà facilissimo e di sicuro non potrò mai scordarmi l’anniversario, una feature utilissima qualora io debba trovarmi a riflettere in pubblico sulle scelte che ho preso, magari scrivendo un lungo, pensoso e ispiratissimo post su LinkedIn. Tutto bellissimo, ve lo assicuro. Perfetto, oserei dire. Ma anche profondo, pregno di significati, simbolico appunto. Solo che, adesso, come faccio?

Mi faccio questa domanda la mattina del dieci gennaio di quest’anno quando, seduto a quella che sarebbe diventata la mia la mia postazione di lavoro domestico, sto iniziando quella che passerà alla storia come la mia prima giornata da lavoratore indipendente. Il quesito prende rapidamente possesso di ogni centimetro della mia mente, paralizzando per un istante tutte le mie funzioni cognitive, come uno scrittore senza ispirazione di fronte al pulsare ritmico del cursore sul foglio elettronico intonso. 

Come faccio? Ovvero in che modo posso ricostruire una routine di lavoro, adesso che ho scelto di rinunciare a tutta l’infrastruttura di legami, luoghi e relazioni che caratterizza il lavoro dipendente e che, fino a qualche settimana fa, regolava e dava un senso alla mia necessità di lavorare.

Prima di quella mattina, quando la domanda “come faccio?” s’è imposta nel mio cervello, bloccando ogni sua articolazione come un ingorgo stradale, non mi ero mai fermato a ragionare davvero su tutti quegli aspetti della mia vita a cui la condizione di lavoratore dipendente imponeva una forma di controllo. O, se lo avevo fatto, lo avevo fatto soltanto in modo superficiale o inconscio, come se la condizione di dipendenza lavorativa fosse qualcosa di scontato. E, in effetti, scontata lo era davvero, perché se passi dieci anni a lavorare per la stessa azienda, la dimensione in cui ti immergi ogni mattina finisce per coincidere con l’intero orizzonte della tua vita, orientando il tuo modo di pensare e di vedere le cose.

La necessità di doverti recare in un luogo specifico per svolgere il tuo mestiere; un set di orari più o meno fissi entro i quali sei obbligato a svolgerlo; un senso di responsabilità e obbligo nei confronti di chi firma la tua busta paga per acquistare la forza lavoro che gli fornisci. Sono solo alcune delle cose che avevo dato per scontate, come se non ci fossero alternative possibili e tutto il mondo ruotasse intorno agli stessi principi che regolavano la mia esistenza.

Il rischio, quando diventi indipendente, è di diventare il più feroce sfruttatore di te stesso, perdendo di vista i limiti necessari a regolare la tua attività in modo equilibrato.

In quell’istante fatidico di una mattina di gennaio come tutte le altre, ho sentito che tutto questo era venuto meno. Il soggiorno di casa mia si era tramutato nel mio ufficio, e questo, tutto sommato, non è stato un grande problema. Il lockdown di marzo 2020 mi aveva già costretto in una situazione del genere e, all’epoca, il passaggio era stato meno traumatico di quanto avessi potuto immaginare. In un certo modo avevo già maturato la convinzione che per svolgere il mio lavoro – scrivo e mi occupo di strategia di comunicazione – l’ufficio non fosse un luogo indispensabile. La quarantena dovuta al diffondersi del contagio da SARS-CoV 2 non ha fatto altro che confermare quella convinzione, dimostrando nei fatti che lavorare da casa, anche in team, era non solo fattibile ma, per molti aspetti, anche alquanto desiderabile. Per questo motivo, di fronte alla prospettiva di non dovermi più recare in un ufficio per lavorare, avevo già sviluppato, testato e collaudato uno schema di comportamento efficace. Ma non pensiate che avere uno schema di questo tipo renda la cosa più semplice o scontata.

Anche per lavorare da casa come lavoratore indipendente c’è bisogno di attraversare delle soglie, dei momenti di passaggio utili a segnare l’ingresso in una dimensione differente da quella domestica che è, appunto, quella del lavoro e dell’attività, anche se queste si svolgono all’interno della propria abitazione. A questo servono i rituali; piccoli gesti, che si ripetono giorno dopo giorno, il cui scopo è proprio quello di aiutarti a oltrepassare la soglia che ti separa da una dimensione all’altra. 

Quando lavoravo come dipendente, i miei rituali consistevano soprattutto nel prendere l’autobus ogni giorno, dalla stessa fermata, più o meno sempre alla stessa ora; la lettura di libri o articoli durante il tragitto necessario ad arrivare al lavoro; l’inserimento della password necessaria ad avviare il computer, il controllo e la lettura delle e-mail e dei feed RSS come prima azione dopo averlo fatto; ma anche la selezione di alcune precise impostazioni al momento dell’apertura di un foglio di testo elettronico, impostazioni che mi sono sempre ben guardato dal selezionare come di default, perché facevano appunto parte di quel set di gesti che mi disponeva nella condizione mentale più favorevole al lavoro.

Tutte queste sono azioni che rientrano nella definizione di “rituale” e, è bene specificarlo, non si tratta di azioni decise a tavolino, ma di gesti che si sono imposti come una forma di routine nel tempo e che ho potuto riconoscere come tali solo a posteriori, quando si erano già affermati. Alcuni di essi, come quelli che ho descritto nel paragrafo precedente, erano parte integrante della mia routine giornaliera; altri, invece, sono durati solo per un periodo limitato di tempo e, per una ragione o per altra, vuoi perché erano scomodi o poco significativi, ho finito col scartarli e con l’abbandonarli.

Specifico, per chi possa temere che i rituali siano l’espressione di un tratto compulsivo della mia personalità, che l’esecuzione di tali gesti non interferiva in alcun modo con la serenità della mia esistenza. Non avevo paura che, anche se ne avessi saltato uno, come spesso accadeva per le più svariate ragioni – un impegno che mi costringeva a scegliere l’auto al posto del bus, un ritardo di questo che mi toglieva il tempo per controllare i feed RSS –, la mia giornata fosse irrimediabilmente compromessa. No, i rituali erano solo quella parte della mia routine che, a seconda del momento della giornata, scioglieva o ricostruiva la barriera tra casa e lavoro.

Il rischio che, nella mia nuova dimensione indipendente, tale barriera finisse per annullarsi era concreto e, per questo motivo, ho prestato attenzione a costruire nuove ritualità per regolare tale passaggio. 

Il gesto di accompagnare mio figlio a scuola è diventato rapidamente uno dei miei nuovi riti. Quei pochi minuti di spostamento, quell’andare e venire da casa, segnano il primo dei momenti di passaggio che scandiscono la mia giornata e, anche se non allo stesso modo, sostituiscono il tragitto in autobus verso l’ufficio. Quando esco la casa è ancora viva e pulsante dei rumori e dei gesti concitati della prima mattina. La carezza e il bacio che svegliano il piccolo; l’assonnato disporre le tazze sul tavolo per la colazione; il frenetico andirivieni dello spazzolino su denti e gengive.

È quello di cui mi sono accorto nei giorni immediatamente successivi al primo, quando ho cominciato a confrontarmi con la necessità di stabilire degli orari entro cui svolgere il mio lavoro. Diventare indipendenti infatti significa poter fare appello solo al proprio senso di responsabilità per regolare il tempo giornaliero di lavoro. La possibilità di delegare quest’ultimo a uno strumento esterno, il contratto di lavoro, che ne regoli la dinamica in modo chiaro e preciso, è preclusa. 

Per me questo è stato probabilmente l’aspetto più difficile da gestire. Perché se iniziare è facile, smettere di lavorare, quando la responsabilità di farlo ricade interamente in capo a te stesso, è molto più difficile. Il rischio, quando diventi indipendente, è di diventare il più feroce sfruttatore di te stesso, perdendo di vista i limiti necessari a regolare la tua attività in modo equilibrato.

Devo confessare che, anche dopo più di due mesi, faccio ancora fatica a gestire questo lato della vita da libero professionista. Una difficoltà che germina direttamente dal fatto che, diversamente da quanto accade quando lavori come dipendente, tra te e il tuo lavoro non ci sono intermediari. Tu e il lavoro che fai siete, in qualche modo, collegati intimamente. Se da un lato questa sensazione è inebriante, perché ti regala la consapevolezza che nulla di quello che fai è alieno da te, dall’altro lato è concreto il rischio che il lavoro diventi la tua unica attività, specialmente in una società dove le relazioni sociali sono ridotte al minimo.

C’era sempre, in quei primi giorni, un’ultima mail da mandare, un ultimo task da chiudere, un lavoro urgente che doveva essere svolto prima della fine della giornata. Mai, nemmeno una volta, in dieci anni da dipendente, avevo provato un tale senso di soverchiamento di fronte al lavoro.

In questo mi aiuta la famiglia. Quando mio figlio rientra da scuola e la mia compagna dal lavoro, che io abbia finito o meno di fare ciò che stavo facendo, ecco che la mia giornata è terminata. Che lo voglia o no, qualcosa di diverso dal lavoro, opposto in un certo senso, interviene a turbare la mia concentrazione e determina la fine della mia giornata lavorativa. Tuttavia, una dinamica di questo genere può essere causa di notevole stress, perché impone di abdicare al controllo che si esercita sulla propria attività, quel controllo che si esprime nei rituali di cui ho parlato solo pochi paragrafi fa. Essi sono infatti fondamentali per regolare l’alternanza tra vita privata e professionale non solo in entrata, ma anche in uscita. Imparare a programmare la propria attività per fare in modo che termini in tempo per poter uscire dalla dimensione del lavoro e rientrare in quella privata e domestica prima di essere costretti a farlo da un evento imprevedibile, è una capacità che va affinata col tempo e con l’esperienza. Passare dalla prima alla seconda senza soluzione di continuità possiede una qualità traumatica che, a lungo andare, può risultare davvero faticosa da gestire.

Farlo significa, in sostanza, imparare a gestire non solo gli orari ma anche il proprio senso di responsabilità. Da indipendente non solo non ci sono, come ho già accennato prima, intermediari tra te e il tuo lavoro, ma non ci sono intermediari nemmeno tra te e i tuoi clienti. Tutto si gioca in una relazione diretta in cui chi lavora è la misura di ogni relazione. Il rischio di trovarsi a essere ipercoinvolti è perciò altissimo e, in quanto tale, deve essere gestito. Della mia prima settimana di lavoro come libero professionista ricordo soprattutto un impellente senso di urgenza, come se il tempo stesse scivolando incessantemente tra le mie dita come sabbia nell’ampolla di una clessidra. C’era sempre, in quei primi giorni, un’ultima mail da mandare, un ultimo task da chiudere, un lavoro urgente che doveva essere svolto prima della fine della giornata. Mai, nemmeno una volta, in dieci anni da dipendente, avevo provato un tale senso di soverchiamento di fronte al lavoro. Anzi, per anni avevo adottato un atteggiamento compassato e una fredda capacità di programmazione del lavoro e gestione del tempo che, raramente, mi avevano portato nella condizione di sentire quest’ultimo come una minaccia da cui non potevo sfuggire. Sotto tutto questo groviglio di sensazioni si agitava la consapevolezza che a essere in gioco, nella relazione col cliente e col lavoro che svolgevo per lui, c’ero io e nessun’altro e questa è una delle poste in gioco più brucianti nel processo che porta a divenire indipendenti, nonché una delle cose più difficili da gestire di tutto questo processo.

E forse è proprio nel senso di questa parola, processo, che risiede una delle chiavi per imparare a essere indipendenti. Il consulente, riflette Tom Critchlow, vive infatti il proprio tempo in una dimensione ciclica e narrativa, che gli antichi greci chiamavano kairos. Vivere all’interno di una dimensione di questo tipo significa che il tempo inizia a muoversi quando qualcosa accade e che questo va ritagliato all’interno dell’accadere degli eventi e no agire all’interno di unità fisse da cui ricavare il tempo stesso, come accade quando si lavora in una condizione di dipendenza.

Divenire indipendenti insomma è un processo e, come tale, non ha un inizio e una fine. Esso finisce per catturarti sempre nel suo scorrere incessante, modificandoti e trasformandoti in modi che, fino a quel momento, non avresti pensato possibili. L’indipendenza è una condizione, una condizione che presuppone un cambiamento continuo su cui, spesso, nella maggior parte dei casi a dire il vero, non hai alcuna possibilità di esercitare un vero controllo ma devi limitarti a gestire le situazioni con cui ti trovi ad avere a che fare. È questa, forse, la parte più difficile, ma anche istruttiva ed entusiasmante, di questa particolare forma di divenire che è il divenire indipendenti.


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È uno scrittore e marketing strategist. Si occupa di cultura critica, digitale e visiva. Ha scritto reportage, saggi e racconti per Internazionale, Domus, Not, Il Tascabile, Ultimo Uomo, Prismo, The Towner, Domani, Ludica, Singola, Manarot, La Foresta e altre riviste. Ha pubblicato due saggi: Su Facebook (:duepunti, 2013) e Stupidi giocattoli di legno (Agenzia X, 2014); una raccolta di racconti: Cronache della Metropoli (Ledizioni, 2019); ha partecipato a diverse antologie e raccolte di saggi.

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