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Contro il burnout8 min read

Contro il burnout

Smettere di parlare di burnout può aiutarci a indirizzare meglio le questioni più importanti che stanno causando il nostro esaurimento psicofisico?

di Siamomine

Questo articolo è estratto da Dylarama, la newsletter settimanale a cura di Siamomine su tecnologia, scienza, comunicazione, lavoro creativo e culturale.
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C’è questa cosa di cui abbiamo smesso di parlare durante le vacanze estive, in una parentesi di reticente omertà, che però pare essersi riaffacciata nelle nostre vite con ancora più prepotenza non appena rimesso piede in ufficio (o in qualsiasi corrispettivo casalingo di una postazione di lavoro).

Parliamo del burnout, la sindrome da stress lavorativo che negli ultimi mesi ha occupato un ruolo sempre più predominante nelle nostre conversazioni, aiutandoci a descrivere il nostro stato psicofisico in una quotidianità afflitta da un persistente senso di stanchezza ed esaurimento nervoso.

Ormai, si tratta di un disagio ubiquo: oltre al classico job burnout e al (purtroppo) noto pandemic burnout, la nostra vita sembra non riuscire più a sopportare alcuna forma di attività che ci richieda un qualsiasi tipo di impegno, al punto da veder emergere nuove espressioni che dall’ambito clinico hanno invaso quello del lifestyle, come il cooking burnout o lo skin burnout.

Ne parla approfonditamente questo articolo pubblicato sul New Yorker, che ripercorre le origini del termine per comprendere meglio la natura di un fenomeno che sembra riguardarci troppo e riguardarci tutti.

Come osserva l’autrice del pezzo, infatti, la storia stessa del burnout è permeata di ambiguità: utilizzato per la prima volta dallo psicologo Herbert Freudenberger per descrivere la condizione psichica in cui riversavano lui e lo staff della clinica non-profit in cui lavorava, il termine era originariamente utilizzato dai veterani di guerra che avevano sviluppato una dipendenza da eroina e si sentivano, letteralmente, consumati.

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Nel giro di pochissimi anni, il burnout è passato velocemente dal descrivere lo stato psicologico dei militari americani, a rappresentare lo stress della categoria dei lavoratori della cura, come medici e assistenti sociali, fino ad arrivare a esprimere la condizione di esaurimento tra colletti bianchi e nei livelli manageriali.

Oggi che si è esteso anche alla sfera della quotidianità e dello spazio privato, è forse arrivato il momento di chiederci cosa sia davvero il burnout e, se per caso, non lo stiamo confondendo con qualcosa di più capillare che fa da sfondo alla nostra condizione di vita«Burnout is a metaphor disguised as a diagnosis. It suffers from two confusions: the particular with the general, and the clinical with the vernacular. If burnout is universal and eternal, it’s meaningless. If everyone is burned out, and always has been, burnout is just . . . the hell of life.»

Anche questo approfondimento pubblicato su The New Republic, sottolinea l’importanza di non confondere il burnout con una differente condizione di stress o con disturbi clinici più seri.

Come viene osservato nell’articolo, uno dei problemi principali è sicuramente la mancanza di una definizione univoca: una meta-analisi di 182 articoli scientifici ha rilevato la presenza di 142 descrizioni diverse di burnout, un dato che sottolinea la tendenza a utilizzare il termine come un ombrello sotto il quale far ricadere condizioni estremamente diverse tra loro: «”Burnout” would not appear in so many clickbait headlines if people didn’t relate strongly to the term. Work really does suck, and “burnout” gives a satisfying name to that experience.»

Se proviamo a guardare oltre gli articoli acchiappa-like e il superficiale abuso del termine per tagliare corto nelle conversazioni che iniziano con “allora, come stai?”, il fil-rouge del burnout resta il lavoro o, volendo adottare uno sguardo più ampio, la società in cui il sistema lavorativo è inserito.

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Come spiega il pezzo su The New Republic, infatti, il burnout non è una condizione clinica, ma uno spettro di esperienze che mette in luce il complesso rapporto che intratteniamo con il lavoro: se da una parte provoca in noi stress e sfinimento, dall’altra dichiararci in burnout connota la nostra fedele appartenenza al sistema, o a quella che Jill Lepore sul New Yorker definisce l’achievement society. Per questo oggi anche cucinare o fare esercizio fisico ci manda in burnout: tutto è diventato lavoro, tutto è finalizzato all’efficiente conseguimento di un risultato.

È con lo stesso spirito che le soluzioni individuate finora spostano la responsabilità principalmente sull’individuo: come riporta questo articolo su The Conversation, è stato osservato che anche la tanto celebrata dote della resilienza può rivelarsi un pallido mito se le condizioni dell’ambiente lavorativo non sono benefiche per chi vi è inserito quotidianamente.

E lo stesso vale per la recente iniziativa delle ferie extra promossa da diverse multinazionali.
Come osserva questo approfondimento sul New York Times, infatti, nonostante si tratti di un’ottima trovata, non può considerarsi una soluzione concreta al burnout e ai problemi che si celano dietro questa parola. La soluzione? Molti esperti suggeriscono un’idea tanto semplice, quanto rivoluzionaria: chiedere ai lavoratori stessi cosa potrebbe rendere migliore la loro vita, dentro e fuori l’ufficio e avviare un dialogo reale e interessato tra management e classe lavorativa.

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Per concludere, questo pezzo su Aeon racconta come l’esaurimento non è uno stato esclusivo della nostra epoca, ma una condizione che nei secoli ha cambiato spesso nome e definizione, dall’acedia dei greci alla neurasthenia nella società americana del 19esimo secolo.

Secondo l’articolo, un importante elemento critico su cui riflettere, non è tanto se la società del passato fosse meglio di quella presente, ma se lo stesso teorizzare e cercare una soluzione ai nostri limiti non sia il problema fondamentale di una società ossessionata dal superamento della nostra condizione mortale.

Forse allora, smettere di parlare di burnout come di una parola magica in grado di condensare ogni male della nostra vita in società, potrebbe rivelarsi un primo passo per uscire dalla nube di ambiguità di questa buzzword moderna e ricominciare a indirizzare apertamente i problemi che affliggono il nostro tessuto sociale e le istituzioni che possono e devono mobilitarsi a riguardo.


Dylarama è una newsletter settimanale gratuita, che esce ogni sabato e raccoglie una selezione di link, storie e notizie su un tema che ha a che fare con tecnologia, scienza, comunicazione, lavoro creativo e culturale.



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Nata a Roma nel 1989, ma con il cuore tra le montagne. Lavora come content editor freelance, gestisce un archivio fotografico nostalgico su Instagram e collabora con diverse riviste online, tra cui Cosmopolitan e Vanity Fair.

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