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Festival musicali e estate italiana

Festival musicali e estate italiana16 min read

Festival musicali e estate italiana

Estetica, retorica e privilegio

di Fiamma Mozzetta

illustrazione di Lin Chen

A differenza di paesi come il Regno Unito e gli Stati Uniti, in Italia il tema del turismo musicale è allo stato germinale. Al netto dei festival, l’Italia fatica a percepire la popular music come una ulteriore rappresentazione del patrimonio culturale e, dunque, ad attirare turisti internazionali interessati magari ai luoghi del cantautorato nostrano, o a una retrospettiva di un genere o movimento. Le mostre sono poche; archivi, biblioteche e collezioni musicali sono pochi anch’essi (praticamente nessuno se si guarda esclusivamente alla popular music); mancano in generale luoghi capaci di raccontare ciò che in passato sono stati i musicisti, che hanno visto e le sottoculture che hanno accolto. Di festival invece ce ne sono sempre molti, alle volte troppi.

Una volta era un evento della musica rock e pop, recentemente della musica elettronica, il festival di musica è ormai diventato un rituale che riesce a radunare centinaia e migliaia di persone, dalla addetta ai lavori all’ascoltatrice occasionale. Dall’inizio del III millennio i festival musicali sono cresciuti in modo esponenziale, presentandosi non solo come un rinnovato metodo di ascolto e aggregazione sociale ma anche come un valido prodotto di mercato. Per citarne qualcuno, tra i più conosciuti troviamo in Italia sicuramente ‘Club to Club’ fondato nel 2002. All’estero invece spiccano eventi come il ‘Primavera Sound’ in Spagna, costituito nel 2001; dal 2011 negli Stati Uniti – e più di recente in Francia – c’è il ‘Pitchfork Music Festival’, mentre in Inghilterra c’è il ‘Field Day’, fondato nel 2007. Proprio in Inghilterra, secondo i numeri riportati da Chris Anderton, autore di Music Festivals in the UK: Beyond the Carnivalesque, solo nel 2015 si contavano più di 500 festival all’aperto, mentre ricerche di mercato più recenti, effettuate dalla UK Music, indicano un guadagno tra gli 8 e i 12 milioni al giorno, registrando tra gli 80 e i 100 mila partecipanti.

Un elenco di questi eventi sarebbe ineluttabilmente parziale oppure infinito. Inoltre, a crescere negli ultimi anni non sono stati soltanto i numeri delle manifestazioni e delle partecipazioni, ma anche le modalità, i formati e l’aspetto mediatico. I cosiddetti boutique festival e i festival ibridi rappresentano, ad esempio, eventi in grado di attirare un pubblico incuriosito anche dagli aspetti non propriamente musicali. Il pubblico si interessa a (e al pubblico viene venduta) un’esperienza a tutto tondo che per tre, quattro o cinque giorni, riesca a offrirgli non solo musica dal vivo, ma anche altre tipologie di arte o momenti di relax, accompagnati da escursioni, gite collettive presso monumenti e luoghi turistici, percorsi enogastronomici e workshop di cucina, sport, e così via. Ci sono poi i festival più grandi, “commerciali” e “di massa”, e festival più piccoli considerati “alternativi”, quelli nelle grandi città o in zone più rurali, e poi chiaramente festival che si specializzano in un determinato genere, mood o vibe, come piace dire a noi giovani.

Affrontare il tema del turismo musicale esclusivamente attraverso il quadro teorico della “valorizzazione del territorio” è senz’altro appropriato in un paese come l’Italia, se non addirittura necessario

Nel mondo anglosassone il fenomeno del festival è stato sviscerato attraverso molteplici pubblicazioni, nelle quali l’evento è stato messo in relazione con temi prettamente di settore come l’autenticità, la cultura alternativa e le analisi del pubblico, ma anche con temi contemporanei quali la sostenibilità, il turismo, la valorizzazione e la commercializzazione del territorio. In Italia se ne stanno occupando progetti come Italia Music Export, Linecheck e, più nello specifico, Butik.

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Nell’ottobre del 2021, Chiara Colli scriveva proprio di questi temi, in quello che sembra essere praticamente l’unico articolo sul tema del turismo musicale. L’articolo, in sostanza, promuove la prima edizione del Festival del Turismo Musicale a cura di Butik, una agenzia di comunicazione e consulenza. L’evento (online e in presenza) cercava di riorganizzare in modo sistematico una serie di dibattiti e di idee sulle potenzialità della relazione tra popular music, viaggi e valorizzazione del territorio. Le tre giornate principali sono state un susseguirsi di incontri e interventi da parte di persone del settore e docenti, con panel che sottolineavano da vari punti di vista l’esigenza di riscoprire i paesaggi e i territori d’Italia attraverso la musica. Che in Italia sia stata un’agenzia di comunicazione a riflettere per prima su questi temi è sicuramente indicativo di una cornice assai più complessa. Di questo ne parlo anche un po’ qui. A ogni modo, affrontare il tema del turismo musicale esclusivamente attraverso il quadro teorico della “valorizzazione del territorio” è senz’altro appropriato in un paese come l’Italia, se non addirittura necessario. D’altronde è il paese con più siti UNESCO al mondo e, al tempo stesso, con più siti UNESCO abbandonati a loro stessi. La valorizzazione di questi territori è doverosa; certo, questa enfasi rischia di dipingere un quadro piuttosto approssimativo.

A complicare le cose infatti arriva, come sempre, il capitalismo. L’interazione tra evento musicale, paesaggio e consumo risulta trascurata in questi pochi momenti di discussione; forse, in alcuni casi, abbozzata. Molti dei festival offerti su tutto il territorio nazionale, e in particolar modo nel Mezzogiorno, si tengono d’estate e cavalcano spesso l’onda di quel romanticismo che inonda i nostri feed da maggio a ottobre, fatto della cosiddetta “vita lenta”. Di questo romanticismo instagrammabile ne ha scritto di recente Benedetta Barone proprio per Siamomine. Cercando di parafrasare le parole attente di Barone, i social raccontano di una vita che sicuramente esiste, o è esistita, ma che domani (se non ci diamo una mossa) non ci sarà più, oltre al fatto che le scene pittoresche di un’Italia apparentemente lontana dalla mercificazione della tarda globalizzazione stanno ormai diventando una caricatura di loro stesse. Non mi si fraintenda: i festival di per sé (di qualsiasi formato e in qualsiasi stagione o luogo) rimangono, nella maggior parte dei casi, degli spazi creativi e di dovuto ozio, oltre ad essere dei momenti critici di socializzazione e di condivisione. MUNDI festival (Puglia), ad esempio, offre anche dei laboratori di ricerca che indagano nuove forme di pensare e di vivere il territorio (immaginario collettivo, rituali, sviluppo culturale). Ma è necessario tracciare una linea tra gli hashtag trendy della vita libera da fatturazioni e i contenuti mediatici – e alle volte gestione – dei festival estivi, così da ampliare e ricontestualizzare il discorso della valorizzazione del territorio aggiungendo quello della commercializzazione e della gentrificazione. 

Quello che voglio dire è che la promozione di alcuni festival musicali estivi non è troppo lontana dall’illusione offerta dalla “vita lenta” di questi profili Instagram. L’estetica di questi profili la ritroviamo nelle barche di Ortigia o di Pantelleria, o nella presunta italianità venduta sui banchi della frutta e della verdura fresca. Inoltre, viene da sé che, tra gli ingredienti della “vita lenta”, troviamo la mitologia dell’estate italiana celebrata da sempre nella cultura pop e da sempre rappresentata attraverso pic-nic in spiaggia, coni artigianali e spritz al tramonto, città deserte e giardini all’aperto, scogliere mozzafiato e stupori dettati da tutte queste semplici cose. Una formula che – ricalcando nuovamente e in parte le parole di Barone – tende al nostalgico convenzionale, o quantomeno che restituisce un racconto parziale di ciò che l’estate italiana in realtà rappresenta. Nella loro accezione contemporanea, in aggiunta, i marchi “vita lenta” e “estate italiana”, strizzano l’occhio a una precedente mitologia, quella della dolce vita e della “canzone balneare” degli anni Sessanta. 

Nella loro accezione contemporanea, in aggiunta, i marchi “vita lenta” e “estate italiana”, strizzano l’occhio a una precedente mitologia, quella della dolce vita e della “canzone balneare” degli anni Sessanta

La nascita della “canzone balneare”, o del “tormentone estivo” è stata un fenomeno tipicamente italiano che ha avuto origine grazie al miracolo economico tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta. Il dopoguerra è caratterizzato da orde di giovani che si ritrovano più denaro in tasca e più tempo libero di qualsiasi generazione precedente, oltre a nuovi modi e formati di consumare la musica (ad esempio il 45 giri, la fonovaligia portatile e successivamente il mangiadischi). La canzone balneare, sottolinea il musicologo Paolo Prato, costituisce un nodo centrale – culturale e musicale – attraverso il quale si costruisce, si alimenta e si amplifica proprio questo momento di evasione e libertà giovanile in stile sixties. Sebbene sia stato un fenomeno ridotto, caratterizzato da poco più di un centinaio di dischi, il filone balneare è riuscito a cambiare le sorti dell’estate, che era rimasta fino ad allora una stagione morta per la discografia italiana, continua Prato in “Tempo d’estate. La canzone balneare nell’Italia degli anni Sessanta” (Diacronie, Marzo 2023). Canzoni come “Legata a un granello di sabbia” di Nico Fidenco, “Datemi un martello” di Rita Pavone, “Il peperone” di Edoardo Vianello, “Tipi da spiaggia” di Johnny Dorelli e ancora “La cabina” di Gianni Meccia o “La scogliera” di Louiselle, sottolineano la correlazione tra il boom economico di quegli anni e la canzone di largo consumo attraverso i crescenti simboli della stagione estiva: il bikini, il ballo sfrenato, l’abbronzatura, gli amori effimeri e la malinconia da fine agosto. “Sapore di mare / Un gusto un po’ amaro / di cose perdute”, cantava Gino Paoli tra il sacro della canzone d’autore e il profano della massa della canzone balneare.

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Per quanto possa sussistere un legame tra la canzone balneare e l’estate italiana, la vita lenta, e i festival estivi, si percepisce comunque una certa cesura. Il tormentone estivo era ed è un prodotto di mercato di massa, e dunque inclusivo, costituitosi attraverso immagini e simboli condivisi a partire da una qualsiasi spiaggia, al di là della sua posizione geografica sulla penisola. Al contrario, le due mitologie e i festival estivi tendono sempre più all’esclusività dell’estetica for estetica’s sake, che mira a dei luoghi specifici già catalogati come “mozzafiato”. L’estetica fine a sé stessa non valorizza il territorio, non si sporca veramente le mani con gli usi e i costumi locali, con le contraddizioni e la mancanza di infrastrutture e così via; in maniera analoga al turismo commerciale, essa lo consuma con gli occhi, per dirla alla John Urry.

I festival offrono non solo interessanti nomi nazionali e internazionali, ma anche il privilegio di sperimentare il vero stile di vita estivo italiano attraverso il cibo, le spiagge, i paesaggi, i pacchetti relax. Ma è sulla nozione di “privilegio” che ci si dovrebbe soffermare. Un full pass per un festival costa mediamente tra i 100 e i 150 euro, cui si aggiungono i costi dei trasporti, del vitto e dell’alloggio per una media di tre notti. Facendo un rapido calcolo, molto approssimativo, per un festival estivo si spendono almeno 400 euro. Il prezzo cala drasticamente se si entra come artista, giornalista, amica di. Facendo un altro paio di calcoli – cioè quello che i social raccontano – le persone si concedono spesso più di una vacanza estiva, quindi oltre ai 400 euro del festival se ne aggiungeranno altri per altri weekend o lunghe settimane di pausa. Senza voler fare i conti in tasca a nessuno, possiamo tranquillamente dedurre che una studentessa, una persona con un lavoro precario o qualcuno che non si qualifica entro le tre categorie citate sopra, ci penserà due o tre volte prima di comprare i biglietti per un festival. Certo, la questione economica e le dinamiche legate al consumo e alla mercificazione rimangono valide anche per i festival non necessariamente estivi. Qualche giorno fa, a seguito della notizia dell’ampliamento del Primavera Sound al Sud America, Richard Villegas si chiedeva, in un articolo su Remezcla, se la presenza di festival di rilevanza globale fosse un traguardo per il continente o semplicemente una minaccia per festival, gestioni e talenti locali.

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Sarà mai possibile snellire la retorica del paesaggio “spettacolare” o della tradizione “lenta”, e produrre – attraverso la popular music – narrazioni sfaccettate, sincere e crude dei nostri territori?


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In conclusione, tornando all’articolo di Chiara Colli mi viene da chiedermi se il pubblico “più giovane, mediamente ‘colto’ e attento a istanze attuali come la sostenibilità” di cui Colli scrive, non sia composto anche da una fetta di trentenni e quarantenni (inter)nazionali e appartenenti alla classe media – o alla ricerca di un flirt con essa – non necessariamente interessati al discorso musicale, alla valorizzazione del territorio o alle potenzialità della popular music come patrimonio culturale, ma solo al sole magico di luglio, all’abbronzatura, alle scene pittoresche. Poiché sappiamo bene che questa fetta c’è e che è anche in espansione, allora le domande che dobbiamo veramente porci sono: quanti di questi festival creano una vera sinergia con il territorio e quanti hanno nelle loro line-up artisti locali? Quanti, poi, sono capaci di costruire delle scene artistiche e culturali capaci di sopravvivere anche durante l’inverno? Sarà mai possibile snellire la retorica del paesaggio “spettacolare” o della tradizione “lenta”, e produrre – attraverso la popular music – narrazioni sfaccettate, sincere e crude dei nostri territori?

di

È dottoranda di ricerca alla Goldsmiths di Londra in popular music e si occupa di musica e tempo: memoria, patrimonio culturale, archivistica e storiografia pop. Collabora con riviste accademiche e non come openDemocracy, Not, Blow Up, Musica/Realtà.

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