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Gaming sessista18 min read

Gaming sessista

Donne gamer e sessismo nei videogiochi: come il linguaggio nel mondo del gaming parla da vicino dei problemi di sessismo e rappresentazione nel settore

di Beatrice Cristalli e Vipra

Riti d’iniziazione: essere nabbo, essere pro

Come accadeva nelle più antiche tribù, dove il superamento dei riti di iniziazione era necessario per entrare a far parte di una comunità ristretta e dotata di particolari regole, così, nel mondo dei gamer il nuovo arrivato viene subito messo alla prova per testare le proprie skills, che rappresentano una carta d’accesso per essere accolti nel gruppo e poter competere con i pro, termine specifico con cui vengono chiamati i giocatori professionisti, ma che nel gergo informale rimanda ai gamer più esperti.

Ecco perché, in questa dinamica, la funzione del nominare i vari livelli di competenza è fondamentale per riconoscersi, all’interno, e risultare criptici e quasi indecifrabili, all’esterno. Il nabbo, italianizzazione di noob, deriva dalla parola inglese newbie ed è l’epiteto con cui i gamer più avanzati chiamano in modo dispregiativo il “novello”, letteralmente “l’inesperto” che nel nuovo ambiente mostra oggettive incapacità nel gioco, ma ha intenzione di migliorare. Fuori dai denti “una schiappa”.

Già a partire da questi due tag è ben nucleata la dimensione unitaria del gruppo: un vero gamer deve sapere anche maneggiare questo codice, perché è la lingua che crea l’identità riconosciuta della community e, allo stesso tempo, ne determina la sua padronanza. Per cui, per un nabbo, sarà utile studiare una quantità sconfinata di acronimi, neologismi e tecnicismi legati al mondo dell’informatica per rapportarsi con i “grandi”.

Al primo posto, dato che la comunità di gamer è decisamente skill-based, suggerirei il verbo skillare: dall’inglese skill, il termine significa “aumentare le proprie competenze”, “sviluppare date abilità”, ma riguarda anche una qualsiasi abilità di cui è dotato un personaggio, come abilità magiche, abilità fisiche (skillare un’arma) o legate a determinate professioni. 

Il caso di nabbo, che come skill è un termine “dell’inizio” e anche parte del linguaggio iniziatico, è interessante perché rappresenta la ricezione del lessico dei giochi online sia tra i membri del gruppo, sia nello slang giovanile, che lo contestualizza e di consequenza “lo storpia” in riferimento a situazioni quotidiane. Per cui non solo possiamo trovare le sue varianti nelle piattaforme digitali, nei forum e nelle chat (niubbo, newb, n00b – in leetspeak – , niubbone, nabbazzo ecc.), ma anche nelle conversazioni, con locuzioni che assumono quasi un tono ludico, come l’espressione niubbaggine totale, che indica un maldestro tentativo d’azione e anche un momento imbarazzante.

Ma lo spregio puramente skill-based ha assunto nel tempo le più varie sfumature linguistiche, come la recente etichetta casual, che indica un individuo non solo inesperto, ma pure disinteressato a sviluppare una maggiore padronanza delle meccaniche o della narrazione di un titolo. Il casual è un utente superficiale che gioca per puro ed episodico intrattenimento, per passare il tempo senza sviluppare un suo gusto critico, ma consumando tutto ciò che il mercato mainstream gli propone. Si tratta di uno stigma che tra gli hardcore gamer è più pesante di quello subito dallo sprovveduto ma volenteroso noob.

Se la dimostrazione delle proprie abilità e del proprio gusto è una prova che non risparmia nessun gamer a prescindere dal sesso, è altrettanto vero che solo le donne vengono sottoposte a una terza e ben più complessa ordalia del fuoco all’interno delle dinamiche tribali della comunità videoludica.

Gamer girl o girl gamer?

Nel mondo videoludico, il solo termine gamer girl è considerato da una parte delle utenti una rivendicazione di spazio e ruolo, mentre altre vi vedono una precisazione con intento dispregiativo rispetto alla sua declinazione neutra (gamer) o al più esaustivo player.

Ma c’è di più. Sul portale 4chan, che, insieme a Reddit (la “front-page di internet”) è uno dei luoghi in cui sono creati meme e slogan destinati a diventare virali sui social network, si discute molto delle sfumature semantiche delle definizioni di gamer girl e girl gamer: Queste variazioni (di posizione del vocabolo girl) apparentemente solo linguistiche, suggeriscono differenze nelle motivazioni di una donna che si presenta alla “tribù”, riguardo all’abilità, l’aspetto e/o anche la personalità del suo personaggio.

In un articolo uscito sul sito Tom’s Hardware, Videogiocatrici “in incognito”: quando essere donne non è un gioco, vengono riportati alcuni dati circa la reazione, proprio nei termini della reaction (‘risposta’) del codice digital, che gli utenti maschi riservano alle videogiocatrici: dall’analisi condotta da Reach3, in collaborazione con Lenovo, «sono stati osservati fenomeni quali il name-calling, ossia gli insulti, i messaggi sessuali inappropriati, gli uomini che attuano deliberatamente tattiche di tanking in partita (ossia giocano volutamente male per fare sì che il proprio team perda), o ancora fenomeni di disconnessione dal server quando il loro avversario è una donna, e altro ancora».

Più precisamente, colui che nel combattimento del gioco assume il ruolo di tank, letteralmente “carro armato”, commette di fatto un atto di eroico sacrificio, ma se lo contestualizziamo e lo rapportiamo a una squadra in cui sono presenti le videogiocatrici, sta adottando una strategia escludente indiretta.

Dirette ed esplicite sono invece le espressioni denigratorie rivolte alle gamer, che ugualmente ostacolano la loro azione e presenza sulle piattaforme. Tra queste è diventata virale una vera e propria maledizione in russo, nata nel videogioco del 2012 Counter Strike: Global Offensive: cyka blyat, difficilmente traducibile in inglese, ma equivalente alla sfera semantica volgare dell’italiano “puttana”.

 Questa espressione è usata per esprimere odio e rabbia incontrollata, rientrando nella lista di parole che caratterizzano il vocabolario tossico del mondo gaming, spesso ricco di insulti non solo sessisti, ma anche razziali, omofobi ecc. 

Per aggirare il problema del name-calling, alcune donne non solo rinunciano di giocare in modalità multiplayer online, in quanto più esposte ad attacchi e molestie, ma creano profili in cui si fingono uomini o, addirittura, nascondono il proprio genere. Proprio sul fenomeno del gender hiding, secondo le ricerche di Lenovo e Reach3, nel sondaggio che è stato svolto su un campione di 900 donne sparse tra Stati Uniti, Cina e Germania, si parla del 59%.

È opinione condivisa che le gamer ricadano quasi obbligatoriamente in due categorie: quelle che giocano poiché genuinamente appassionate, e quelle unicamente interessate alle attenzioni – e oggi alle donazioni in denaro – ricevute dal pubblico maschile. Insomma: non basta non essere una noob, occorre anche non essere una fake gamer.

Quando lo stigma ti tagga come fake gamer

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Nonostante dati statistici italiani e internazionali non sottolineino invece significative differenze di sesso tra i fruitori del medium, né tra le scelte di tipologia dei titoli, tantomeno circa le motivazioni che spingono gli utenti a giocare, è opinione condivisa che le gamer ricadano quasi obbligatoriamente in due categorie: quelle che giocano poiché genuinamente appassionate, e quelle unicamente interessate alle attenzioni – e oggi alle donazioni in denaro – ricevute dal pubblico maschile. Insomma: non basta non essere una noob, occorre anche non essere una fake gamer

La modalità attraverso cui i videogiocatori affrontano una pressione impietosa che ne attesti il valore e garantisca loro accettazione e rispetto assume, nel caso delle donne, una seconda connotazione, decisamente più inquisitoria e disagevole, perché inerente a quanto di più intimo un essere umano possieda: la sua psiche.

I rilievi demoscopici testimoniano che i gamer uomini e donne condividono e percepiscono su di sé un vero e proprio stigma sociale – oggi anche parodiato in forma di meme – figlio della concezione stereotipata del nerd diffusa nel passato. Se questa concezione oggi è più sfumata di fronte al ruolo che videogiochi e nuove tecnologie occupano nella sfera sociale contemporanea, se n’è rafforzata un’altra, curiosamente figlia di una narrazione popolare ancestrale (ma mai sopita) che vede nella dissimulazione, nel sotterfugio e nell’interesse per secondi, malevoli, fini caratteristiche quasi “geneticamente” femminili.

Una semplice ricerca su Google potrà chiarire la posizione di una certa vulgata, quando al digitare fake gamer la prima pagina del motore di ricerca propone risultati come “10 signs your girlfriend is a fake gamer” e una quantità di meme che vedono protagoniste donne unicamente in cerca di approvazione attraverso il gioco e atteggiamenti provocanti.

Persino Urban Dictionary – talvolta utile e puntuale lente sui più rapidi sviluppi del codice digitale – propone sotto la voce fake gamer l’espressione fake gamer girl, assai più ricca, nonché l’unica provvista di considerazioni offensive a sfondo sessuale. L’idea che gli uomini possano simulare interesse per i videogiochi solo per ricevere attenzioni o guadagni è praticamente esclusa, ma nel caso di una donna la possibilità viene percepita come molto più concreta.

Una gamer girl, quindi, non dovrà semplicemente dimostrare la propria abilità per ingraziarsi la community, ma anche la presunta “bontà” alla base delle sue più intime motivazioni che la spingono a cimentarsi con un titolo. Il tribunale del web ha mostrato, come da tradizione, estrema violenza nel proclamare sbrigative sentenze e condanne, con una discrezionalità che rende impossibile per chiunque considerarsi al sicuro da un vero e proprio processo alle intenzioni.

Ciò vale tanto per le videogiocatrici “private”, generalmente già considerate meno abili dal pubblico maschile, che per le professioniste, come in un recente caso documentato dal New York Times, in cui diverse streamer hanno denunciato le molestie sessuali ricevute da top player uomini.

Una gamer girl può essere accusata di essere fake nello spazio di pochi commenti, con la semplice insinuazione che ricopra quel ruolo per le proprie caratteristiche fisiche, o per approfittare delle meccaniche mercificanti alla base di molte piattaforme web attraverso un’arma di cui l’universo maschile sarebbe sprovvisto: la capacità di catalizzare desiderio sessuale. 

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Rappresentazioni: donne dei videogiochi, donne nei videogiochi

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Non è una novità che simili sistemi di lettura e rappresentazione della realtà vengano applicati ai più vari ambiti della vita sociale, e quello videoludico non fa eccezione. Tuttavia, si deve precisare che l’articolazione storica di questo fenomeno ha caratteristiche originali che nel tempo ne hanno tracciato una geografia utile da analizzare.

 Le donne sono state parte attiva nell’industria videoludica sin dai suoi albori: programmatrici, autrici, sviluppatrici e un gran numero di altre figure professionali. È il caso di citare esempi come quello di Mabel Addis, prima game designer donna che nel 1964 strutturò The Sumerian Game, o Roberta Williams, considerata la creatrice del genere dell’avventura grafica, ma anche recenti come Kim Swift (Portal, Left 4 Dead) e la sviluppatrice Bonnie Ross (Halo).

La percentuale di lavoratrici in quest’ambito, anche se cresciuta negli ultimi anni, è comunque esigua in rapporto a quella maschile. Molte donne rinunciano agli studi in programmazione e design del videogioco a causa della paura degli ambienti di lavoro tossici, della sottorappresentazione nei titoli e di una generale sensazione di essere fuori luogo nell’industria, come raccontato in un’inchiesta del The Guardian. La legittimità di queste preoccupazioni è suffragata anche da eventi recenti, su tutti il tristemente noto “Gamer Gate”, che ha coinvolto le sviluppatrici Zoë Quinn e Brianna Wu e la critica femminista Anita Sarkeesian.

Anche la rappresentazione di personaggi femminili all’interno dei titoli ha avuto uno sviluppo travagliato: dalla scelta di non svelare il sesso dell’avventuriera Samus Aran prima della fine del gioco nel fortunatissimo Metroid (successivamente capostipite di un intero genere videoludico) per ragioni di marketing, alle critiche ad Abby, coprotagonista del recente sequel di The Last of Us, non è stato solo l’aspetto, ma anche la semplice presenza di una donna a innescare una ricezione “problematica” per una parte del pubblico. 

Se è vero che con Lara Croft e Jill Valentine (Tomb Raider, Resident Evil) i player hanno controllato eroine abili e impavide, è altresì impossibile non notare come alcune caratterizzazioni delle protagoniste femminili sembrino rispondere più alla necessità di assecondare stereotipi di attrattività, a cui associare caratteristiche apparentemente maschili. Quali? Per esempio forza, resistenza, o bravura nel combattimento.

Lungi dall’essere, dunque, solo comprimarie o obiettivi passivi da salvare, i personaggi femminili sono stati comunque soggetti a manipolazioni “di intenzione” non dissimili da quelle vissute dalle loro controparti dall’altra parte dello schermo, quasi volti a giustificarne la presenza.

È opportuno sottolineare come il game design si stia evolvendo in una direzione più consapevole, proponendo nel passato recente modelli applauditi dal pubblico come quello della piccola Six e di Maxine Caulfield (Little Nightmares, Life Is Strange) in un percorso felice che si può far risalire a Ms. Pac-Man. La costante presenza di questo “double-check”, in tutti i livelli e le espressioni del medium è, a ogni modo, innegabile.

La semplice rappresentazione nell’ambito non risolve il problema. La dinamica resta uguale e risiede nell’obbligo per le donne a dover assecondare interazioni stabilite dagli uomini, esattamente com’è avvenuto alla nascita dell’industria del videogaming, ma che possono essere fatte risalire persino alle sostanziali meccaniche di sopraffazione insite nell’economia di mercato contemporanea.

Tutt’altro che un gioco: la realness delle gamer girl

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Da fake gamer a eroine a metà, o a lavoratrici marginalizzate: cosa accomuna la distorta visione della presenza femminile? Al termine del secolo scorso la progettazione dei videogame era un ambito quasi prettamente maschile. In più, lo sviluppo di giochi in cui la narrazione fosse preponderante all’azione ha contribuito a un allontanamento storico di intere generazioni di giocatrici, consolidando i pregiudizi di questa sfera sociale.

Il cambiamento in atto quindi, si muove su un terreno accidentato. Quando una donna approccia un ambito strutturato sulla base di dinamiche di potere stabilite da uomini, queste riducono drasticamente le sue vie d’accesso per muoversi e crescere liberamente al suo interno.

Rendere “piacevole” la propria presenza agli occupanti uomini è uno dei lasciapassare – pure non privi di rischi – a disposizione, seguito dalla capacità di aderire a una scala valoriale prestabilita (quella dell’abilità o dell’aggressività), per quanto mortificante possa essere: “bella come una donna e brava come un uomo”.

La semplice rappresentazione nell’ambito non risolve il problema. La dinamica resta uguale e risiede nell’obbligo per le donne a dover assecondare interazioni stabilite dagli uomini, esattamente com’è avvenuto alla nascita dell’industria del videogaming, ma che possono essere fatte risalire persino alle sostanziali meccaniche di sopraffazione insite nell’economia di mercato contemporanea.

In questo senso la dinamica rituale del processo alla realness delle gamer girl si inserisce perfettamente nel solco della tradizione maschilista di accettazione delle donne: se la sessualizzazione e l’esercizio di potere e controllo ne sono una faccia, l’obbligo di sottostare a una prova “su misura”, ma basata sulle medesime premesse, ne è un’altra.

I metodi con cui entrambe vengono applicate rispondono a un fondamentale tentativo di togliere credibilità ed esercitare potere attraverso la vergogna, riducendo gli ambiti di azione femminile e premettendo che quelli concessi lo sono perché la presenza delle donne “è utile” a qualcosa: semplicemente la soddisfazione di un desiderio maschile.

Ogni vittoria concessa al maschilismo in tale senso non fa dunque che rafforzare la base di un sistema patriarcale di cui l’immagine della donna definita “scarsa” o ancora peggio fake è espressione capillare. Delegittimare le istanze di donne e uomini che chiedono una maggiore partecipazione femminile al mondo videoludico mettendone in dubbio le motivazioni è, come dimostrato da Heron, Belford e Goker in Sexism and circuitry, un tentativo di esercitare controllo su un universo che è tutt’altro che “solo un gioco”.

*Ringraziamo Daniela Collu per il prezioso aiuto nello sviluppo dell’articolo e Francesca Sirtori, autrice di “Mulier et mater videoludens


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È consulente in editoria scolastica e collabora con Focus Scuola e Focus Junior. Dal 2017 è Referente regionale della Lombardia per il Premio Leopardi del Centro Nazionale di Studi Leopardiani di Recanati (CNSL). Per il portale Treccani.it (Lingua italiana) cura da anni indagini a puntate sull’evoluzione dei linguaggi della contemporaneità.

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