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Il trauma come storytelling generazionale13 min read

Il trauma come storytelling generazionale

Siamo una generazione ripiegata su stessa, appassionata di narrazioni in prima persona. È necessariamente un male?

di Irene Doda

Uno dei dibattiti culturali più interessanti che hanno animato le ultime settimane, almeno per chi segue i media statunitensi, è scaturito da un lungo articolo uscito sul New Yorker, a firma della giornalista e critica letteraria Pahrul Sehgal, intitolato The Case Against the Trauma Plot.

La tesi dell’autrice si può riassumere come segue: una buona fetta della produzione culturale degli ultimi anni è costruita sul dispositivo narrativo del trauma. Le storie che creiamo e consumiamo, secondo Sehgal, sarebbero incentrate su una minuziosa analisi psicologica dei personaggi; invece di procedere in avanti (cosa succederà?), arretrano verso il passato (“cosa è successo?”).

Seghal parla di questo tipo di narrazioni in modo molto critico, sostenendo che avrebbe contribuito ad appiattire personaggi e intrecci. Fa gli esempi di prodotti televisivi come Ted Lasso e Fleabag, che a dispetto della leggerezza e comicità che li contraddistinguono, procedono a svelare le ferite non risolte dei loro protagonisti, o di libri come Una vita come tante, di Hanya Yanagihara, imperniato sul passato tragico del protagonista.

Non voglio qui addentrarmi in una dissertazione di critica letteraria, esercizio per cui non avrei alcuna competenza né voce in capitolo. Non voglio neppure difendere il trauma come espediente narrativo tout court: è chiaro che una storia che parla di sofferenza psicologica possa essere scritta e raccontata tanto in modo brillante quanto in modo approssimativo.

L’ossessione per il trauma diventa problematica, poi, nel momento in cui viene forzata dall’esterno sul racconto di esperienze altrui: ad esempio quando ricerchiamo morbosamente l’elemento strappalacrime nei racconti di persone appartenenti a minoranze discriminate. Pensiamo al modo in cui vengono rappresentate dai media le persone con disabilità: invariabilmente traumatizzate, nel migliore dei casi protagoniste di emozionanti storie di riscatto (si parla infatti di trauma porn e inspiration porn).

Ne ha scritto recentemente molto bene, Luca Casarotti su Jacobin, a partire dal monologo andato in onda a Sanremo a proposito dell’esperienza del persone non vedenti. Quando tuttavia la lente del trauma è utilizzata per raccontare una storia a partire dallo sguardo personale e intimo di chi l’ha vissuta – quindi lasciando il controllo della narrazione al soggetto della stessa – può diventare un elemento non solo di potenza narrativa, ma anche di trasformazione politica.

Uno dei punti che Sehgal ha sollevato nel suo articolo è quello secondo cui l’aver vissuto un trauma dia a un soggetto una sorta di autorità morale scaturita dalla condizione di vittima. Una vittima è sempre titolata a parlare della sua esperienza, e questo la pone in una condizione di intoccabilità dialettica: non si può mettere in dubbio l’esperienza traumatica. «La vittima è l’eroe del nostro tempo. Essere vittime dà prestigio, impone ascolto, promette e promuove riconoscimento, attiva un potente generatore di identità, diritto, autostima. Immunizza da ogni critica, garantisce innocenza al di là di ogni ragionevole dubbio» scrive Daniele Giglioli nell’incipit di Critica della vittima.

Siamo indubbiamente una generazione ripiegata su se stessa, appassionata di narrazioni in prima persona, che tende a leggere il mondo sotto una lente psicologica individuale.

Le storie che raccontiamo e i protagonisti che le abitano riflettono questo particolare culto odierno? Partiamo dal presupposto che la risposta sia affermativa, analizzando il caso in cui è il soggetto vittimizzato ad avere il controllo della propria storia.

Il riconoscimento e il racconto dello status di vittima ha inerentemente una componente attiva. Identificarsi come vittime è affermare ad alta voce di star subendo un sopruso; raccontare una storia è un modo di reagire. Restando nel campo della produzione televisiva degli ultimi anni, prendiamo come esempio l’episodio finale della serie I May Destroy You, in cui il personaggio di Micaela Coel, dopo aver fantasticato su come uccidere il suo stupratore (in una bellissima sequenza di azioni alternative alla sliding doors) trova nella scrittura il modo più efficace di affrontare il proprio dolore. Trasformare il trauma in parole è un modo di superare la condizione di vittima: non sublimandola e rendendola innocua, ma aggiungendo una potenza attiva a una condizione inerentemente passiva.

L’esempio della serie di Coel (che parla di cultura dello stupro) si lega al modo in cui i movimenti femministi hanno creato, a partire dalle storie delle vittime stesse, narrazione efficaci che includono aspetti di riscatto e rinnovamento.

Della stessa autrice:

Le storie che scardinano i meccanismi della violenza domestica – mi viene in mente anche il bellissimo memoir di Meena Kandasamy Ogni volta che ti picchio – fanno tutt’altro che appiattire e vittimizzare le loro protagoniste. Non le identificano con i sintomi della loro sofferenza: le emancipano da essi. Le rendono il centro di catene di eventi complessi, messi nero su bianco, finalmente, sviscerati e riconosciuti per quello che sono.

«Sono la donna seduta a scrivere la propria storia. Sono la donna che si prepara a catturare la vostra attenzione. Sono la donna tenuta in piedi per affrontare l’ispezione del mondo» scrive Kandasamy in conclusione del suo memoir, in cui ripercorre la vicenda del proprio matrimonio con un uomo abusante. Il trauma plot – e la sua pervasività nei media mainstream – è esso stesso un dispositivo di uscita dalla condizione della vittima per eccellenza: quella del silenzio.

La volontà di leggere il mondo a partire dalle sofferenze individuali è un modo per affinare la nostra empatia, che possiamo considerare non solo un mezzo di lettura o un dispositivo narrativo, ma anche un’arma di trasformazione collettiva.

I personaggi dei grandi romanzi classici non erano mossi dal trauma, argomenta Sehgal. Non ci interessa, quando leggiamo Jane Austen, quale passato oscuro nascondano le sue eroine. L’io non era sotto i riflettori quanto lo è oggi. Il presente, al contrario, è dominato dall’autonarrazione. La prima persona spopola tra gli scrittori, il punto di vista diventa intimo, non troviamo più il narratore onnisciente o le grandi narrazioni universali. Cresce il mercato per i memoir e per l’autofiction.

Siamo indubbiamente una generazione ripiegata su se stessa, appassionata di narrazioni in prima persona, che tende a leggere il mondo sotto una lente psicologica individuale.

Basti pensare allo speciale musicale Inside, uno dei prodotti di punta di Netflix nel 2021, in cui il comico Bo Burnham racconta il lockdown del 2020 inquadrando esclusivamente se stesso, rinchiuso nel proprio appartamento, per un’ora e mezza. O al successo di Strappare lungo i bordi, una storia generazionale – di fallimenti, di precariato, di incapacità di affrontare la vita adulta – filtrata dai codici dell’autofiction (in questo caso, quelli tipici di Zerocalcare), e ancora una volta, del trauma irrisolto.

I millennial e la generazione Z (operando una rozza categorizzazione generazionale) creano e consumano partendo dal proprio sé, e a partire da sé leggono i grandi eventi storici, i sommovimenti sociali. Lo sguardo universale dei grandi romanzi del passato, quello in cui, da un solo punto di vista, si poteva orchestrare il racconto di un’epoca, è lontano anni luce. È molto facile assumere una postura giudicante nei confronti di questa tendenza: è il narcisismo di una generazione che non ha fatto abbastanza sacrifici, è l’effetto della tecnologia social, sono le ossessioni dell’identity politics contemporanea.

Ma l’abbandono dello sguardo universale è anche l’abbandono del suo portato violento: non vi è più l’unica voce dall’alto, il punto di vista maestro che schiaccia tutti gli altri, onnisciente quindi onnipotente. Anche le storie si frammentano, in tanti punti di vista intimi, ognuno con il suo carico, la sua potenza, il suo trauma. Forse siamo una generazione ripiegata su di sé, ma capace di trovare una propria voce. Forse, da tanti angoli diversi, riusciamo a cogliere meglio la complessità di ciò che ci circonda.

Sapere leggere la realtà tramite l’archetipo del trauma è uno strumento utile per decodificare il flusso di eventi in cui siamo immersi: un continuo susseguirsi di esperienze di dolore collettivo, che andranno con ogni probabilità intensificandosi.

Parlo da persona quasi trentenne, senza un passato comunemente definibile traumatico né eclatanti condizioni di sofferenza, che però, come tante altre, ha sperimentato dei sintomi post-traumatici durante la pandemia: difficoltà a uscire di casa, panico all’idea di viaggiare o di trovarsi in luoghi affollati. Il trauma sta trovando il suo posto nel nostro inconscio comune, anche per noi occidentali privilegiati, e con il procedere delle crisi economiche, climatiche e sociali questa situazione non farà che inasprirsi. Le nostre narrazioni diventano più sensibili alle conseguenze psicologiche delle trasformazioni sociali: questo non è forse uno strumento prezioso di adattamento, lettura e azione su tali trasformazioni? Non solo la pandemia, ma anche l’iperconnessione, la globalizzazione, la frammentazione sociale, il precariato, le crisi ricorrenti: la storia delle generazioni più giovani è una storia di ferite che chiedono di essere raccontate. Alcuni autori rileggono con la lente del trauma, politico e collettivo, anche le esperienze dei loro genitori e nonni. Penso alla produzione letteraria dello scrittore francese Edouard Louis, che in Chi ha ucciso mio padre e nel più recente Lotte e metamorfosi di una donna, ricostruisce la vita dei genitori. Louis opera una mescolanza sapiente e tutt’altro che vittimistica di analisi del trauma personale, nazionale e di classe. «Ad agosto 2016, sotto la presidenza di François Hollande, Myriam El Khomri, la ministra del lavoro, sostenuta dal primo ministro Manuel Valls, fa adottare la legge chiamata Loi travail, che facilita i licenziamenti e permette alle aziende di far lavorare i dipendenti diverse ore in più a settimana, in più rispetto a quello che già lavoravano. L’azienda per cui spazzavi [si riferisce al padre, ndr] le strade ha potuto chiederti di spazzare ancora di più, di piegarti ancora più a lungo, ogni settimana.» scrive Louis.

Forse allora, il trauma plot non è altro che una manifestazione di un’interiorità sempre più visibile nella sfera pubblica. Non una lente narcisistica, ma uno strumento che può aiutare a leggere le emozioni complicate che attraversano le epoche storiche. La volontà di leggere il mondo a partire dalle sofferenze individuali è un modo per affinare la nostra empatia, che possiamo considerare non solo un mezzo di lettura o un dispositivo narrativo, ma anche un’arma di trasformazione collettiva.

Lo ha scritto bene Alice Diacono, nel suo libro di scritti poetici, Veniamo dal basso come un pugno sotto il mento: «La cosa importante da tenere a mente è che la parte interiore, personale, di questo processo non è assolutamente meno importante della parte esteriore, pubblica e quindi politica. Anzi è proprio questo il momento del discorso, il culmine, l’apoteosi, in cui, come si dice, il personale viene a coincidere con il politico».


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Vive a Forlì e lavora come scrittrice e giornalista freelance. Si occupa di lavoro, tecnologia e questioni di genere; spesso di tutte e tre queste cose insieme. Collabora con l'organizzazione sindacale StreetNet International ed è co-fondatrice e speaker del podcast Anticurriculum.

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