fbpx
Close
Type at least 1 character to search
Torna su
Linee dritte, la ripetizione delle forme: i virali edifici di Hong Kong

Gli edifici di Hong Kong: una cacofonia visiva divenuta virale21 min read

Gli edifici di Hong Kong: una cacofonia visiva divenuta virale

Linee dritte, la ripetizione delle forme: i virali edifici di Hong Kong

di Vittoria Mazzieri

Una cacofonia visiva. Linee verticali e orizzontali ripetute all’infinito, o forme varie che cozzano all’interno di una inquadratura. Su internet e sui social media Hong Kong, la Regione amministrativa speciale cinese colonia britannica fino al 1997, viene raccontata anche così. All’hashtag #hongkong, che su Instagram compare 41 milioni di volte, non corrispondono solo contenuti su cibo, vita notturna e luoghi di interesse. Questo e altri hashtag accompagnano anche fotografie dai toni vintage che ritraggono vie dense e insegne al neon, quasi a voler rendere uno sbrigativo omaggio alle atmosfere fumose dei film di Wong Kar-wai. Nelle immagini condivise sui social del panorama urbano di Hong Kong, gli edifici sembrano ricoprire un ruolo centrale. A templi e strutture di interesse artistico e culturale il trend preferisce palazzi comuni, che sembrano non aver nulla di speciale se non la loro compartecipazione in un pattern che si riscontra un po’ ovunque, colorato, denso, ripetitivo: sia a Kowloon, la penisola che compone la parte settentrionale di Hong Kong e che ospita distretti affollatissimi; sia a Hong Kong Island, l’area insulare a sud con i grattacieli più iconici e una densità abitativa di oltre 16 mila per km2 (nel 2020, quella dell’intero territorio hongkongonese era di 7140 persone per km2).

In aree così popolate, se non c’è possibilità di espandersi orizzontalmente si cresce in altezza. Dal titolo “Architecture of Density”, il progetto del fotografo tedesco Michael Wolf si propone di indagare l’anatomia architettonica in continua espansione di Hong Kong. Ne emerge una serie di fotografie in cui si ripetono modelli e forme di edifici. Nessuna porzione di cielo, nessuno spazio attorno. Solo palazzi, finestre, condizionatori, fili della corrente, fili per stendere i panni.

Michael Wolf, a39

Ma cosa si cela dietro alla cacofonia visiva dell’ambiente urbano hongkongonese? Alcuni edifici ne rappresentano la forma densa, altri rivelano il lato flessibile di una città così controllata. Nelle aree centrali, ad esempio, è ormai difficile trovare venditori ambulanti di cibo. Se nella dalu, la Cina continentale, il governo centrale ha promosso una campagna pro-decoro che mira a contrastare la cosiddetta “economia della bancarelle”, nella Regione amministrativa speciale l’obiettivo è stato raggiunto già anni fa. I wet market, i grandi mercati in cui si vendono prodotti freschi, sono confinati in aree coperte, e le bancarelle all’aperto vendono soltanto abbigliamento e souvenir.

Cibo take-away a Yuan Lang, Hong Kong Island. Foto di Vittoria Mazzieri

Gli edifici, meglio se un po’ degradati, sembrano raccontare di un’altra realtà, lontana dalla mondanità del centro e dal decoro a beneficio del turismo. Ad oggi, Hong Kong è ancora un centro finanziario globale, ma il suo status in quanto porto commerciale più florido d’Asia è in declino, visto l’emergere di altre grandi metropoli della dalu o del Sudest asiatico. Ma c’entra anche il rapporto con Pechino. All’indomani del ritorno alla madrepatria, il governo della Repubblica popolare aveva garantito ampia autonomia secondo il modello “un paese, due sistemi”: “libertà di parola, di stampa e di pubblicazione”. Ma in particolar modo con l’introduzione della controversa Legge sulla sicurezza nazionale a giugno del 2020, la situazione è cambiata. Il dibattito civile si è ridotto drasticamente, molti attivisti sono stati arrestati e alcune testate giornalistiche sono state chiuse con la scusa di contrastare la diffusione di fake news e “contenuti sediziosi”.

Oltre a opporsi all’ingerenza cinese e a chiedere la piena democrazia, le proteste che si sono registrate negli ultimi anni hanno anche chiamato in causa annosi problemi sociali, come l’aumento del divario tra ricchi e poveri e la crescita esponenziale dei prezzi degli alloggi, sempre più inaccessibili. Secondo un reportage del New York Times di qualche anno fa gli affitti a Hong Kong sono più costosi di quelli a New York, Londra o San Francisco, per appartamenti la metà più piccoli. In un articolo del 2013 il fotografo e giornalista Mark Leong spiegava che quasi la metà della popolazione (ad oggi di quasi 7 milioni e mezzo di persone) viveva in alloggi pubblici o sovvenzionati dal governo.

Leggi anche:  5 cose che (forse) non sai su David Shrigley

L’alta densità abitativa e la speculazione immobiliare hanno prodotto risultati stupefacenti. Nell’area nord-est di Kowloon, un enorme città nella città ha ospitato per circa cinquant’anni immigrati e lavoratori a basso reddito. Al suo apice, la Walled City contava 33 mila abitanti e una densità 19 volte quella di New York. Una “città murata” nata in risposta all’emergenza abitativa che si era registrata in città dopo la seconda guerra mondiale, con l’arrivo di un massiccio afflusso di immigrati provenienti dalla neonata Repubblica popolare cinese di Mao Zedong.

“Non c’è mai stata una guida o una pianificazione dall’alto su come il luogo dovesse essere. È cresciuto come una risposta organica alle esigenze della gente”, ha detto a Business Insider Greg Girard, fotografo che ha trascorso anni a indagare le dinamiche interne a quella che a tutti gli effetti si era sviluppata come un enclave, prima della sua demolizione nel 1994. Quando Girard e il suo collega Ian Lambot hanno iniziato a frequentare Walled City per la realizzazione del libro “City of Darkness Revisited”, alla fine degli anni Ottanta, il luogo era già entrato in un processo di regolamentazione. Ma per anni l’insediamento è stato un “purgatorio legale”, in buona parte controllato dalla mafia cinese. L’unica normativa edilizia era applicata all’altezza degli edifici, che non dovevano superare i 14 piani, vista la vicinanza all’aeroporto.

Bambini che giocano sul tetto di Walled City, Greg Girard, 1989

La classe operaia hongkongonese accorreva a Walled City per la varietà dei servizi offerti a basso costo. Di sera, i residenti fuggivano l’umidità e il buio dei piani inferiori salendo sui tetti per svolgere attività quotidiane e di svago. Un ecosistema funzionante e in continua evoluzione, ma intollerabile per il governo. I piani per la demolizione iniziarono a fine anni Ottanta, gli abitanti ottennero risarcimenti monetari e furono sfrattati, pur non senza proteste, e il luogo scomparve.

Negli anni successivi il governo ha messo in atto dei piani di riqualifica che contemplavano la costruzione di un parco. Lo scopo è stato quello di preservare l’eredità culturale della “città murata” di Kowloon, dando ai nuovi sentieri e ai padiglioni i nomi delle vie della Walled City. Se fosse sopravvissuta al nuovo millennio, forse avrebbe sperimentato lo stesso destino toccato ad altre realtà abitative che parlano di immigrazione e sovraffollamento, che ad oggi sono diventate loro malgrado spazi perfetti per le esigenze dei social media.

I blog di viaggio li annoverano tra gli spot sconosciuti, le “gemme nascoste” che permettono al turista di conoscere un lato della identità poliedrica della ex colonia inglese. E, verrebbe da dire, anche perpetrare un approccio orientalista con cui dall’occidente si guarda all’Asia con interesse mistico, e in questo caso come a un luogo distopico, complesso, in cui intere sezioni della popolazione vivono come topi, in condizioni umanamente inaccettabili. Sul web, le foto vengono condivise per meri interessi estetici e a guardarle viene da pensare a una copertina di un gruppo russian indie: si rimane affascinati dalla ripetizione delle forme, dalla brutalità della scena tutta e dal senso di straniamento che ne scaturisce.

Luoghi di questo genere vengono inglobati negli itinerari del turismo di massa proprio per il fatto di non essere attrazioni turistiche convenzionali, ha detto l’architetto Kevin Mak King-huai al South China Morning Post. Li si può sperimentare in modo diverso, con più libertà. È il caso, ad esempio, del complesso di edifici conosciuto come monster buildings, cinque blocchi molto densi che hanno acquisito notorietà a livello internazionale dopo essere apparsi in uno dei capitoli del blockbuster hollywoodiano Transformers.

Una sezione dei cosiddetti monster buildings (ai lati). Foto di Vittoria Mazzieri

L’enorme complesso residenziale è stato costruito negli anni Sessanta e si trova a Quarry Bay, distretto nordorientale di Hong Kong Island. Se si entra nel cortile interno ci si accorge subito di due cose: di non essere l’unico turista con la reflex e lo sguardo all’insù, e di essere osservato dai residente con espressione annoiata, se non quando infastidita. Viene da chiedersi chi abbia sentenziato che quel complesso a Quarry Bay, ora zona commerciale con musei e gallerie d’arte, è un luogo unico, diverso dagli altri. Certo è che le caratteristiche primarie che gli sono state attribuite sono il degrado e la bruttezza estetica, come indica il nome. Una decisione presa senza interpellare chi ci vive, tanto che nel 2018 è apparso un segnale che esplicitava il divieto di fotografare la zona senza aver chiesto il consenso, al fine di proteggere la privacy degli abitanti.

Leggi anche:  Come le emoji di reazione stanno cambiando il nostro modo di comunicare e viverci le comunicazioni

Nathan Road. Foto di Vittoria Mazzieri

Distretto di Sham Shui Po, Kowloon

Nei trend visivi da social media, la spettacolarizzazione del disagio sociale è una conseguenza inevitabile. Gli stessi travel blog citati prima usano termini mitici, fuori dall’ordinario, per descrivere Chungking Mansions, uno dei luoghi iconici e identitari della città. Wong Kar-wai ne ha offerto un ritratto in Hong Kong Express, anche chiamato Chungking Express, del 1994. Non ne conoscevo la fama quando ci ho messo piede, poco tempo fa, perché avevo prenotato un alloggio al dodicesimo piano della sezione E. Se si passeggia sulla centrale Nathan Road, nel distretto turistico Tsim Sha Tsui, a Kowloon, non ci si accorge quasi della sua esistenza, inglobato com’è nel panorama urbano. Da fuori non c’è nulla che lo differenzi. Un unico e imponente blocco di cemento, diciassette piani, una targa che come per altri palazzi a Hong Kong ne riporta il nome: “重慶大廈, Chungking Mansions”.

Invece può annoverare una lunga serie di epiteti poco cortesi: pugno in un occhio, ghetto, sgabuzzino, giungla. “Luoghi come questo”, ha scritto qualcuno sul web, “riscrivono le leggi che governano la distribuzione dei corpi negli spazi”. Nato come complesso residenziale nel 1961, già alla fine degli anni Sessanta molti dei suoi appartamenti erano stati trasformati in alloggi economici per i turisti che venivano a trascorrere qualche giorno in città. Negli anni successivi, tuttavia, parte dei 5 blocchi che lo compongono si è riconvertita in abitazioni per immigrati. Si stima che nell’edificio transitino ogni giorno più di 10 mila persone. Quelle che ci abitano e ci fanno affari proverrebbero da India, Pakistan, Nepal, Nigeria e Ghana. Da oltre 120 nazioni, in tutto.

Le tante piccole attività che affollano il piano terra, le scale vecchie e tortuose piene di cavi elettrici e sacchi della spazzatura, i lenti ascensori metà dei quali conducono solo ai piani dispari e metà a quelli pari: tutti elementi che caratterizzano un palazzo che è una effige della “circolazione internazionale di beni, denaro e idee”, come ha scritto l’antropologo Gordon Mathews, docente della Chinese University of Hong Kong. Le ricerche che per quattro anni lo studioso ha svolto sulla struttura e sui suoi abitanti sono confluite nel libro “Ghetto at the Center of the World: Chungking Mansions” (2011, University of Chicago Press): “A un mondo di distanza dalle scintillanti sedi delle multinazionali, Chungking Mansions è l’emblema del modo in cui la globalizzazione funziona in realtà per la maggior parte della popolazione mondiale”.

Vale a dire, una miriade di microscambi quotidiani, molti dei quali necessitano del coinvolgimento di lavoratori irregolari: servizi di cambi valuta, ristoranti indiani e cingalesi, venditori di ogni genere, lavoratori precari dell’Asia meridionale, sex workers, imprenditori africani che trasportano telefoni cellulari da rivendere in patria. Negli anni Duemila, secondo alcune statistiche, nelle Mansions si acquistava il 20% di tutti i telefoni cellulari utilizzati nei paesi dell’Africa subsahariana.

Il confinamento di una moltitudine di corpi diversi in uno spazio predefinito ha alimentato un forte stigma: “Da piccola venivo a Kawloon con le amiche, ma i nostri genitori ci proibivano di entrare lì dentro”, mi dice un’amica cresciuta nel distretto di Yuen Long, a nord est di Hong Kong. Ma negli anni le autorità hanno amplificato gli sforzi per ripulire la sua immagine, e sono state migliorate le condizioni di sicurezza interne: ad oggi un sistema di telecamere a circuito chiuso copre oltre il 70% dello spazio pubblico del complesso, e la polizia intasa a giorni alterni l’entrata delle Mansions. Tornando nella stanza al dodicesimo piano nel blocco E, sono passata attraverso controlli obbligati in una retata che coinvolgeva almeno una settantina di uomini in divisa. “Ah sì, capita spesso, non c’è da preoccuparsi”, mi ha rassicurato la proprietaria dell’hotel quando ho chiesto che cosa fosse successo: “Molti di quelli che abitano qui sono senza documenti”.

Leggi anche:  La mascolinità tossica in rete

Invece può annoverare una lunga serie di epiteti poco cortesi: pugno in un occhio, ghetto, sgabuzzino, giungla. “Luoghi come questo”, ha scritto qualcuno sul web, “riscrivono le leggi che governano la distribuzione dei corpi negli spazi”. Nato come complesso residenziale nel 1961, già alla fine degli anni Sessanta molti dei suoi appartamenti erano stati trasformati in alloggi economici per i turisti che venivano a trascorrere qualche giorno in città. Negli anni successivi, tuttavia, parte dei 5 blocchi che lo compongono si è riconvertita in abitazioni per immigrati. Si stima che nell’edificio transitino ogni giorno più di 10 mila persone. Quelle che ci abitano e ci fanno affari proverrebbero da India, Pakistan, Nepal, Nigeria e Ghana. Da oltre 120 nazioni, in tutto.

Le tante piccole attività che affollano il piano terra, le scale vecchie e tortuose piene di cavi elettrici e sacchi della spazzatura, i lenti ascensori metà dei quali conducono solo ai piani dispari e metà a quelli pari: tutti elementi che caratterizzano un palazzo che è una effige della “circolazione internazionale di beni, denaro e idee”, come ha scritto l’antropologo Gordon Mathews, docente della Chinese University of Hong Kong. Le ricerche che per quattro anni lo studioso ha svolto sulla struttura e sui suoi abitanti sono confluite nel libro “Ghetto at the Center of the World: Chungking Mansions” (2011, University of Chicago Press): “A un mondo di distanza dalle scintillanti sedi delle multinazionali, Chungking Mansions è l’emblema del modo in cui la globalizzazione funziona in realtà per la maggior parte della popolazione mondiale”.

Vale a dire, una miriade di microscambi quotidiani, molti dei quali necessitano del coinvolgimento di lavoratori irregolari: servizi di cambi valuta, ristoranti indiani e cingalesi, venditori di ogni genere, lavoratori precari dell’Asia meridionale, sex workers, imprenditori africani che trasportano telefoni cellulari da rivendere in patria. Negli anni Duemila, secondo alcune statistiche, nelle Mansions si acquistava il 20% di tutti i telefoni cellulari utilizzati nei paesi dell’Africa subsahariana.

Negli anni Duemila il web ha registrato l’emergere di articoli che si propongono di dire la verità su come si vive lì dentro, una volta per tutte. L’idea, insindacabile, è di sfatare qualche mito, dipanare lo stigma e corredare il tutto con aneddoti succosi (il lungo reportage a puntate del South China Morning Post contiene interviste a molti personaggi delle Mansions, tra cui uno degli allievi di Yip Man).

“Molte persone ancora non comprendono questo luogo. Ne hanno paura”, mi dice Prabhu, proprietario di un ristorante indiano: “Se provassero a entrarci, se si facessero prendere dalla curiosità, capirebbero che qua c’è un grande senso di comunità”. Ad oggi Chungking Mansions sembra essere diventata a tutti gli effetti una componente importante dell’identità hongkongonese. Di certo, non è un luogo di oscurità e disperazione. E neanche uno scenario distopico funzionale ai trend dei social media.

Prabhu e il suo ristorante


Dylarama è una newsletter settimanale gratuita, che esce ogni sabato e raccoglie una selezione di link, storie e notizie su un tema che ha a che fare con tecnologia, scienza, comunicazione, lavoro creativo e culturale.



di

Editor e autrice nel collettivo giornalistico China Files, ha collaborato con la sezione Esteri de Il Manifesto occupandosi di gig economy, mobilitazione sul lavoro e diritti sociali in Cina e Asia. Ha anche pubblicato su Valigia Blu e Singola Rivista.

DylaramaIscriviti alla newsletter

Dylarama è una newsletter settimanale gratuita, che esce ogni sabato e raccoglie una selezione di link, storie e notizie su un tema che ha a che fare con tecnologia, scienza, comunicazione, lavoro creativo e culturale.