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digital detox

Il digital detox non seve a niente10 min read

Il digital detox non serve a niente

Siete riusciti a tenervi alla larga dai social durante le vacanze?

di Lavinia Martini

Illustrazione di Anaëlle Myriam Chaaib

Dopo l’uscita di The Social Dilemma saranno stati in tanti a precipitarsi sulle funzioni dello smartphone che impostavano limiti per l’utilizzo dei social network. Sul mio telefono il “benessere digitale” sta nella stessa categoria del controllo genitori. Dobbiamo prenderci una balia per non rimanere schiacciati dal peso del nostro scrolling, questo mi suggeriva lo schermo mentre dicevo “sì”.

La parola detox, che ho sempre dato per scontata, è in realtà l’abbreviazione di un’altra parola, detoxify, derivata a sua volta da detoxification. Nella sua referenza originale, il sostantivo indica la privazione (-de) da materie tossiche, identificate da sempre con tutte le sostanze che creano dipendenza. Secondo le cronache uno dei primi rehab ha aperto nel Kentucky nel 1930. Si chiamava US Narcotic farm ed è stato raccontato in un documentario del 2008 in una doppia dimensione: sia come centro riabilitativo che come vera e propria prigione.

Questa vicenda testimonia che a un certo punto della storia sono nati degli ambienti fisici in cui le dipendenze venivano esaminate, gestite e controllate. Ad essi si accompagna la nascita della detox culture, che oggi appare direzionata verso spazi infiniti, anche virtuali e metafisici, e ha assunto un suo epicentro anche all’interno del linguaggio comune, deprivato dell’aurea clinica e punitiva che aveva inizialmente. Oggi il detox pare addirittura una cosa che si può fare per gioco, da soli, con gli amici, per un tempo limitato e autogestito. Anche se c’è poco da scherzare, soprattutto quando si parla di bambini e bambine, e di vere e proprie digital addiction.

A causa dell’utilizzo massiccio dei social network e dell’avvento di una dimensione contigua tra vita online e offline, quella che il filosofo Luciano Floridi ha chiamato con espressione fortunata onlife, le tecniche di resistenza alla pervasività del digitale (dipinto spesso come altro da sé, una forza esterna che spinge per insinuarsi in ogni piega della vita reale) sono diventate sempre più frequenti. Il digital detox ha acquisito una sua letteratura propria ed è diventato non solo un trend ma anche una manifestazione della propria caparbietà oppositiva, una prova di forza che, paradossalmente, viene esposta proprio nel luogo da cui ci si dovrebbe sottrarre: i social. Le star per esempio fanno i digital detox esattamente come andavano a fare i rehab in cliniche costose. Alcuni lo fanno per sfizio, altri per ragioni di salute mentale, come Selena Gomez che affermò di aver chiuso i suoi account a causa della forte pressione degli haters.

Del resto i numeri sono inoppugnabili: stando ai report di We Are Social e Hootsuite (dati 2020) gli italiani trascorrono in media 107 minuti al giorno sui social e 6 ore sul web. Questa presenza quotidiana sulle reti interconnesse ha risvolti molto problematici, come disturbi fisici, mentali, percezione della realtà, depressione, aggressività. La soluzione? Per alcuni staccarsi dai social temporaneamente (il detox non ha una caratterizzazione permanente) per gestire in modo più controllato e consapevole la tecnologia. Per dominarla senza farsi dominare. Ma ancora prima dei social si parlava della dipendenza da mail in un flusso di lavoro senza confini, come testimonia uno dei primi articoli sul tema. Ed è più o meno in questo momento che nasce la digital detox culture, un’epifania della dieta digitale.

La parola detox, è l’abbreviazione di un’altra parola, detoxify, derivata a sua volta da detoxification. Nella sua referenza originale, il sostantivo indica la privazione (-de) da materie tossiche, identificate da sempre con tutte le sostanze che creano dipendenza.

Come sottolineavo, questo ambito è figlio della cultura del detox tout court. Intorno ad essa si sono sviluppati potenzi mezzi persuasivi che spingono gli utenti troppo coinvolti a disintossicarsi, separarsi, allontanarsi da un’esposizione continuativa alla vita online che sentono opprimente e ingestibile. Sono nati corsi e app, persino un’accademia di digital detox che insegna alle persone e alle aziende come “affrontare lo stress digitale e migliorare la propria vita”, poi guide online, libri, sfide mediatiche. Alcuni content creator indicano in modo esplicito i periodi ricorrenti in cui vanno “offline”. In America nel 2009 è stato istituito un National Day of Unplugging che viene celebrato ogni anno il primo weekend di Marzo con eventi che si concentrano sul benessere digitale. Facebook allora aveva solo cinque anni.

Visto il numero impressionante di utenti che utilizza i social, ma anche chat, mail, piattaforme di work management, l’ossessione digitale poteva non trasformarsi in una ghiotta occasione per monetizzare? È così che si spiegano i viaggi detox, un segmento verticale del turismo e dell’ospitalità che comprende mete ideali per disconnettersi, che siano luoghi “naturalmente” offline o posti sicuri dove riporre cellulare e dispositivi in una cassetta chiusa a chiave. I benefici di questa operazione? Questo sito dice che serve ad aumentare del 40% la produttività a testimonianza che il digital detox non è pensato come uno strumento risolutivo, ma come un servizio commercializzabile che non modifichi in modo sostanziale le nostre abitudini ma aumenti semplicemente la performatività.

I legami tra cultura del detox digitale e del detox alimentare sono evidenti. In quest’ultimo caso la diet culture, proposta ancora oggi in maniera implicita e controllante, ha agito come un forte traino. Non a caso, cercando online “digital detox”, uno dei primi contenuti mostrati è quello di Food Spring, azienda specializzata nella commercializzazione di prodotti alimentari proteici e salutistici, dal titolo “digital detox: 12 consigli per staccare la spina”. Secondo uno studio, la dimensione del mercato globale dei prodotti disintossicanti è stata stimata in 48,22 miliardi di dollari nel 2020 e si prevede che raggiunga 51,75 miliardi di dollari nel 2021 e poi 75,06 miliardi di dollari entro il 2026. Questo spiega perché in molti segmenti di mercato, anche nella GDO, siano nate categorie merceologiche specifiche dedicate ai prodotti disintossicanti, come succhi, tè, percorsi yoga e benessere, kit di prodotti pensati per iter depurativi. Tuttavia, come per le diete offline, molti specialisti hanno sottolineato la pericolosità di percorsi autogestiti, costosi e poco efficaci, quando non dannosi.

Il digital detox ha acquisito una sua letteratura propria ed è diventato non solo un trend ma anche una manifestazione della propria caparbietà oppositiva, una prova di forza che, paradossalmente, viene esposta proprio nel luogo da cui ci si dovrebbe sottrarre: i social.

Allo stesso modo il mercato del digital detox ha creato un’economia fiorente prima che sorgessero i dubbi sull’efficacia di pratiche di disconnessione estemporanee e drastiche. Questo modello infatti è stato messo in discussione per diversi motivi. Prima di tutto perché i digital detox non sono intesi come percorsi che spingono a costruire un dialogo più consapevole con i mezzi di comunicazione, ma diventano semplicemente dei momenti on-off in cui agire sul sintomo senza intervenire sulla causa. In secondo luogo perché espongono gli utenti al rischio di ricadere nelle stesse dinamiche tossiche a cui volevano sottrarsi. Magari con la frustrazione di aver perso tempo e soldi. Per questo alcuni studi affermano che i digital detox non funzionano e che non hanno un effetto concreto sul benessere personale. Un aspetto ancora più subdolo è quello raccontato da Hussein Kesvani: nel mercato del lavoro, chi svolge una professione digitale, in particolar modo da freelance, si sente forzato a una connessione perpetua per non rischiare di perdere lavori remunerativi. In poche parole, il detox è un lusso che non tutti possono permettersi.

Una delle possibili soluzioni a questo destino digitale è quello di ripensare il detox in termini di “digital moderation” come sostiene questo articolo. Appurato che è impensabile – almeno in una parte di mondo – vivere senza tecnologie, invece di negarne l’esistenza (anche temporaneamente) si può tentare una convivenza pacifica che utilizzi strumenti di mitigazione soddisfacenti e personalizzati. Ad esempio diffondendo una maggiore cultura dei rischi e dei pericoli che derivano da un’eccessiva sovraesposizione, creando un ambiente di lavoro che permetta la disconnessione dei dipendenti e che non misuri la loro competenza sulla base di quanto sono reperibili, aumentando la cultura tecnologica e digitale in maniera trasversale e accessibile.


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Giornalista, scrive di viaggi, turismo sostenibile, cibo, hospitality e ambiente su testate nazionali e internazionali.

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