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La capitalizzazione della creatività digitale12 min read

La capitalizzazione della creatività digitale

La creatività è una delle skill più richieste in ambito lavorativo. Ma qual è il suo significato oggi e quali sono le sfide che deve affrontare la nuova generazione di creator digitali?

di Priscilla de Pace

All’inizio del 2020, LinkedIn pubblicava una lista delle competenze più ricercate dalle aziende su scala internazionale. Tra le soft skills, ovvero le qualità personali non definite dalla conoscenza specialistica di una materia o di uno strumento, la creatività troneggiava al primo posto, scavalcando doti come la capacità di adattamento e l’intelligenza emotiva.

Più di un anno dopo la pubblicazione del report, con mesi di lockdown e zone rosse alle spalle, e uno scenario economico in profonda trasformazione a causa della violenta crisi pandemica, il mondo del lavoro è stravolto, ma ancora affamato di creatività. Secondo un articolo pubblicato su Forbes, infatti, in un periodo come questo il talento creativo non rappresenterebbe solo un aspetto preferenziale, ma una qualità essenziale per trovare lavoro: «in un mondo post-coronavirus, avremo bisogno di ingegno umano per inventare, sognare nuovi prodotti e modi di lavorare».

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Quello tra creatività, successo e innovazione tecnologica è un legame che conosciamo bene. Basta una veloce ricerca su Google per imbattersi in decine di contenuti che ne spiegano l’importanza in ogni ambiente lavorativo e che forniscono consigli su come coltivarla e trasformarla in un potente strumento per eccellere in ambito professionale. Tutto al fine di coniugare, finalmente, la necessità di avere un lavoro con la possibilità di esprimere il proprio talento.

È il perpetuarsi del mito della classe creativa di Richard Florida che nel suo bestseller del 2002 L’ascesa della nuova classe creativa. Stile di vita, valori e professione coniava il termine illustrandone la natura e i pregi: «La classe creativa include le persone che si occupano di scienza e di ingegneria, di architettura e di design, di istruzione, di arte, di musica e intrattenimento, la cui funzione sociale è creare nuove idee, nuove tecnologie e nuovi contenuti creativi».

I creativi di Florida sono innovativi e talentuosi ma, soprattutto, prediligono forme di lavoro flessibili e informali, con orari elastici e postazioni di lavoro affrancate da superati vincoli geografici. Riconoscersi in questa definizione non è difficile, siamo tutti figli della classe creativa di Richard Florida e della cultura lavorativa a cui la sua opera ha ampiamento contribuito.

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La creatività ha perso la sua natura sociale e collettiva ed è diventata il nuovo modello produttivo su cui fondare la competizione non solo tra aziende, ma anche tra individui, esponenti politici, servizi pubblici e sociali. Il termine “creatification” nasce per raccontare l’onnipresenza dell’imperativo creativo nelle nostre vite.

A quasi 20 anni dalla pubblicazione del volume, e a distanza di tre dal mea culpa dell’autore, soprattutto sugli effetti della classe creativa sulla gentrificazione dei quartieri urbani, la parola creatività nel mondo del lavoro digitale è diventata una buzzword dai contorni indistinti. Se, da una parte, racconta le ambizioni delle nuove generazioni, cresciute con il mito del lavoro autonomo e della possibilità di monetizzare il proprio estro creativo, dall’altra descrive la realtà di un’industria sempre più disinteressata alle condizioni della propria forza lavoro, a cui è richiesto di trovare soluzioni creative anche all’assenza di tutele e diritti. Ma come siamo arrivati fin qui?

Creatività e capitalismo

Nel suo libro Against Creativity, l’accademico Oli Mould traccia il culto del talento creativo nato dall’opera di Florida descrivendone le conseguenze tossiche sulla società e sugli stessi membri della cosiddetta classe creativa. Secondo Mould, la conversione della creatività in un bene commerciabile e la sua elevazione a principale fonte di progresso della società, ha avuto un enorme impatto su tutto ciò che ci circonda. La nascita di una cultura di massa e del culto del moderno genio creativo, in grado di distinguersi dal popolo e di trasformare la propria dote in profitto, avrebbero dato vita a nuove forme di competitività e individualizzazione.

«La gerarchia aziendale tradizionale è ormai un sistema defunto che nega l’attività creativa. I governi sono troppo burocratici e soffocano il pensiero politico innovativo. La regolamentazione è nemica del lavoro flessibile, agile e creativo. I servizi sociali, gli enti di beneficenza e altri istituti del terzo settore stanno fallendo non perché i loro finanziamenti siano stati drasticamente ridotti, ma perché non sono abbastanza creativi.».

Se è vero che la creatività risiede nella capacità di generare cambiamento attraverso la connessione e la rielaborazione originale di dati già esistenti, allora le pratiche di Insta-Activism e la nascita di Instagram zines sono la nuova espressione della creatività digitale.

La creatività ha, quindi, perso la sua natura sociale e collettiva ed è diventata il nuovo modello produttivo su cui fondare la competizione non solo tra aziende, ma anche tra individui, esponenti politici, servizi pubblici e sociali. L’autore usa il termine creatification, “creativizzazione”, per descrivere l’onnipresenza dell’imperativo creativo nelle nostre vite, spiegando come un simile sistema sia diventato ormai insostenibile.

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Mould chiude il libro con la proposta di una creatività non mercificata, indipendente dalle logiche di mercato e, quindi, anche da quelle del lavoro retribuito, ma come viene sottolineato in diverse critiche al saggio, come quella de il manifesto e di The Guardian, l’analisi di Mould è utile e brillante, ma la soluzione da lui indicata troppo ingenua e utopistica. Mentre è nostro dovere ripensare il rapporto tra creatività e mercato, mettere in evidenza gli errori di un sistema capitalistico che tende a sfruttare le risorse creative per il solo profitto, senza restituire valore reale alle comunità, immaginare di sottrarla integralmente dai rapporti economici in questo momento si rivela una soluzione irrealistica.

Creatività e artivismo social

Un capitolo aperto e molto dibattuto in questi mesi, riguarda la nascita di nuove forme di attivismo (e artivismo) sulle piattaforme social, in particolare su Instagram. Secondo Mould, l’interesse del capitalismo nei confronti della classe creativa sarebbe mosso dalla volontà strategica di incorporare nelle proprie strutture le figure più propense a opporsi al sistema. In quest’ottica, la capillare diffusione di contenuti social finalizzati a educare, informare e coinvolgere gli utenti su cause socio-politiche e umanitarie, potrebbe essere visto più come uno scacco matto della Silicon Valley che come una rivoluzione nel modo di utilizzare piattaforme nate con ben altri scopi.

Se è vero, però, che la creatività risiede proprio nella capacità di generare cambiamento attraverso la connessione e la rielaborazione originale di dati già esistenti, le pratiche di Insta-Activism e la nascita di Instagram Zines che propongono un nuovo utilizzo dello slideshow, non possono essere liquidate tanto facilmente.

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Un recente approfondimento di Vox sul tema mette in luce le opportunità e le sfide di questo nuovo fenomeno partendo proprio dall’analisi degli aspetti estetici e creativi di queste grafiche informative.

Da una parte c’è il riutilizzo innovativo del carosello di Instagram, introdotto nel 2017 per permettere agli utenti di condividere più momenti memorabili della stessa esperienza, senza doversi limitare alla selezione di un solo scatto, dall’altro le strategie messe in atto dai creativi per ingannare l’algoritmo del social, che predilige contenuti fotografici aspirazionali a grafiche sul taglio dei finanziamenti alla polizia.

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Jess, in particolare, afferma di aver scelto di imitare l’estetica commerciale di marchi che si rivolgono a un pubblico di millennial interessato al femminismo 2.0 , allo scopo di attirare utenti non politicizzati e «donne della mia età che non partecipano alla conversazione perché non sanno da dove iniziare».

Eric e Jess sono i perfetti eredi della classe creativa di Florida, con un curriculum di importanti collaborazioni alle spalle e un day job nel mondo della comunicazione, il primo come graphic designer, la seconda come consulente di marketing. È evidente che la minaccia delineata da Mould resta una possibile chiave di lettura del fenomeno.

Così come la nascita di nuove organizzazioni e agenzie creative che mettono al centro della propria impresa l’attivismo climatico e politico, può essere letta in continuità con la teoria di Mould o come la necessità di una riappropriazione da parte della classe creativa dei propri strumenti.

È ancora troppo presto per un giudizio definitivo, ma se la creatività consiste anche nel trovare nuove soluzioni a vecchi problemi, non c’è motivo di precludersi la possibilità che questa nuova ondata produca un significativo cambiamento nel settore.

Mutuare la comunicazione dai brand per realizzare contenuti politici e non commerciali, così come utilizzare le proprie competenze per costruire un modello di business diverso, possono essere entrambi letti come il sintomo di una creatività digitale che fatica a trovare un’identità indipendente dalle sue forme commerciali e mainstream, ma anche come un tentativo di empowerment da parte dei creativi che oggi reclamano la possibilità di utilizzare in nuovi modi il proprio talento e le proprie conoscenze.


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Nata a Roma nel 1989, ma con il cuore tra le montagne. Lavora come content editor freelance, gestisce un archivio fotografico nostalgico su Instagram e collabora con diverse riviste online, tra cui Cosmopolitan e Vanity Fair.

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