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L’internet delle emozioni13 min read

L’internet delle emozioni

Come intelligenze artificiali, social network e dispositivi digitali influenzano i nostri sentimenti.

di Irene Doda

Della stessa autrice:

Trascorro più tempo insieme al mio computer che con molte persone che fanno parte della mia quotidianità. Mi rattrista scriverlo. Eppure, quanti e quante di noi si trovano nella medesima situazione? Durante la pandemia, la sensazione di avere un rapporto sempre più intimo con gli oggetti elettronici che popolano la mia vita si è decisamente acuita. Anche le attività che facevo fuori casa, come gli aperitivi con gli amici, gli eventi culturali, e perfino i viaggi e le passeggiate, si sono trasferiti online. Faccio sempre più fatica a concentrarmi se non ho lo smartphone sottomano, come se il telefono fosse diventato un’estensione diretta del mio corpo. Che relazione stiamo costruendo con le macchine? Smartphone, computer e algoritmi sono semplicemente strumenti che usiamo con un fine, in modo meccanico, oppure ci stiamo muovendo in un territorio nuovo, dove umano e cyber si fondono?

La connessione tra emotività umana e intelligenza artificiale è stata già esplorata da diverse aziende. Il proposito è di catturare le microespressioni facciali, la nostra voce, i suoni che emettiamo e convertirli in preziosi dati di marketing. L’emotional AI può servirsi anche di wearable, dispositivi indossabili che registrano il nostro battito cardiaco, la nostra sudorazione, la nostra temperatura corporea per inferire conclusioni su un particolare stato emotivo.

La vicinanza sempre più prossima delle macchine alla comprensione dei nostri sentimenti pone una serie di problemi di ordine pratico e politico. Prima tra tutti, la privacy.

Nel 2021 una società cinese – la Canon Information Technology – aveva installato delle telecamere nei suoi uffici che avevano il compito di identificare le espressioni degli impiegati, e lasciare entrare solo coloro che esibivano un sorriso. In un comunicato stampa, l’azienda aveva dichiarato che questa soluzione tecnologica era necessaria per mantenere un ambiente sano e produttivo all’interno degli uffici. L’affective computing, un altro nome dell’AI emotiva, trova applicazioni nel marketing, nello studio delle reazioni dei conducenti delle auto a guida autonoma o nelle applicazioni di domotica. Esiste addirittura un’app, Woebot, che funge da psicoterapeuta artificiale. Un paper del 2021 ha proposto un’analisi dei pattern di linguaggio dei veterani americani per individuare potenziali tendenze suicide.

Nonostante le limitazioni pratiche di questi approcci, non ancora troppo raffinati, gli esiti possono essere gravemente discriminatori: essendo le emozioni modellate su fenotipi precisi – tendenzialmente maschi, bianchi e abili – le tecnologie di intelligenza artificiale emotiva non saranno certamente altrettanto efficaci nei confronti di persone che si discostano dalla norma. Pensare poi a un luogo di lavoro dove possa essere vietato mostrare il proprio scontento ci proietta direttamente nella distopia.

Le emozioni che riversiamo all’interno delle reti, anche quelle veicolate dal nostro corpo, divengono una parte della nostra identità. Ciò che prima sembrava puramente umano – le espressioni facciali, il sudore, il battito del cuore – si sta integrando all’interno di un sistema algoritmico.

Viviamo nell’epoca del capitalismo della sorveglianza, non è certo una novità. Ma con i dispositivi stiamo sviluppando una simbiosi che rischia di diventare anche prescrittiva. Se le aziende sfruttano l’intelligenza artificiale per raggiungere una maggiore comprensione degli stati emotivi, la relazione moderna tra umano e macchina funziona in entrambi i sensi.  Le emozioni che riversiamo all’interno delle reti, anche quelle veicolate dal nostro corpo, divengono una parte della nostra identità. Ciò che prima sembrava puramente umano – le espressioni facciali, il sudore, il battito del cuore – si sta integrando all’interno di un sistema algoritmico. È ancora possibile pensare all’umano in termini completamente separati dal digitale? «Concreto vs Astratto, Fisico vs Virtuale, Spazio vs Cyberspazio, sono tutte medaglie a due facce, sono la dimostrazione di quanto sia difficile uscire dalla coazione a pensare per poli opposti» scrive Carlotta Cossutta nell’introduzione alla raccolta di saggi Smagliature Digitali, pubblicato da Agenzia X.

La fantascienza ha indagato in lungo e in largo la questione se un androide possa provare dei sentimenti, indugiando nelle sue pieghe etiche e morali. Certamente non è questa la sede per addentrarsi nella ricerca di una risposta. Ma la domanda non riguarda tanto la definizione di essere umano in sé, quanto se la simbiosi così stretta tra umano e macchina non stia portando a un cambiamento nella nostra stessa umanità. L’altra questione è come il potere della “scatola nera” algoritmica e le strutture oligarchiche delle piattaforme stiano influenzando comportamenti e (auto)percezioni.

Non solo le intelligenze artificiali possono leggere sempre più facilmente le nostre emozioni, ma l’uso quotidiano e continuato delle tecnologie social alterano in modo significativo alcune funzioni neurologiche. Ogni volta che riceviamo una notifica, un like, il nostro cervello registra una gratificazione, sotto forma di una scarica di dopamina, un neurotrasmettitore che è alla base di molte funzioni vitali dell’essere umano e che contribuisce a rendere la nostra soglia dell’attenzione costantemente alta. È per questo che non riusciamo a fare a meno di controllare ogni due minuti lo schermo del nostro smartphone.

Il bello è che non c’è in gioco solo l’hacking della nostra attenzione. Internet è una macchina complessa, composta da layers che incidono direttamente sul nostro comportamento – come ad esempio le notifiche push, ma anche di sostrati che hanno modificato in profondità il modo di approcciarci a noi stessi. Pensiamo, ad esempio, al modo in cui viviamo un’esperienza divertente, inquadrandola già in una struttura narrativa. Scattiamo una foto immaginando il momento in cui la posteremo sui social, prefigurando già l’istante in cui diventerà un ricordo. Inseriamo noi stessi in una narrativa continua: i pezzi della nostra vita diventano stories. Un altro esempio è il rapporto ossessivo che molti (e soprattutto molte) di noi hanno sviluppato con il proprio corpo dopo mesi di videochiamate – e tanto tempo passato a guardare noi stessi interagire con il prossimo in diretta. Io, dopo alcune settimane, ho disattivato la funzione della telecamera frontale: non riuscivo più a comunicare serenamente con altre persone mentre non staccavo gli occhi dal mio viso – dai miei punti neri, dalle mie macchie sulla pelle, dalle mie occhiaie. Ultimamente circolano diversi racconti di persone che hanno scoperto il loro orientamento sessuale grazie a TikTok. Il web è pieno di storie di giovani che hanno abbracciato la loro queerness a partire dalla loro for you page, grazie a una “decisione” della macchina. Persino qualcosa di profondo e complesso come la sessualità può essere scorporato e ridotto in bits e bytes, analizzando fin nelle pieghe più nascoste.

Non solo le intelligenze artificiali possono leggere sempre più facilmente le nostre emozioni, ma l’uso quotidiano e continuato delle tecnologie social alterano in modo significativo alcune funzioni neurologiche.

La relazione intima umano-macchina un modo molto potente, non solo di mantenere alta la nostra attenzione, ma anche di far sì che l’ecosistema social (un ecosistema, ricordiamolo, privato e tendenzialmente oligarchico) l’impostazione degli algoritmi e degli hardware di cui ci circondiamo abbia un’influenza decisiva sul nostro mondo interiore.

L’intimità tra macchine e umani è diventata inevitabile. Ed è anche un’ottima strategia di mercato per le piattaforme e per i trader di dati. La questione non è soltanto quanto di noi stessi stiamo lasciando alle macchine, ma anche quanto queste siano in grado di disciplinare la nostra identità, incasellandola dentro categorie specifiche. Il gruppo di ricerca Ippolita, che si occupa da anni di informatica del dominio e società digitale, ha chiamato questo fenomeno disciplinamento algoritmico.

Le regole interne delle piattaforme tendono a normalizzare le identità e appiattire i modi di comunicare, all’interno di un sistema di relazione capitalista e fortemente accentratore. Le nostre modalità espressive su internet diventano performative, in un orizzonte che è quasi esclusivamente quello dell’oligarchia privata. Le emozioni e la complessità delle identità diventano facili da leggere, da incasellare. Il pensiero algoritmico si incarna in noi, nelle nostre abitudini. «Tante gabbie, altrettanti piccoli teatri, in cui ogni attore è solo, perfettamente individualizzato e costantemente visibile», per citare Foucault e la sua definizione di panottico.

Le macchine, dunque, sono entrate in simbiosi con noi, e noi con loro.  Loro ci leggono, fin nei movimenti più nascosti del corpo. Noi adeguiamo i nostri comportamenti alle loro logiche: all’idea di essere costantemente osservati, che la nostra identità sia riflessa in una bacheca social, che il nostro corpo sia così come appare in una chiamata Zoom. Abbiamo sviluppato questa simbiosi in modo troppo profondo? Donna Haraway definisce cyborg un essere ibrido tra umano e macchina: un soggetto tecno-umano composto tanto da aspetti umani quanto artificiali. È una definizione che risale agli anni Ottanta, ma interroga il nostro presente. La realizzazione di connessioni con le macchine hanno fatto di noi cyborg, esseri ibridi non solo nel corpo ma anche nella mente e nelle emozioni.

Mentre il microlavoro fantasma può sembrare un fenomeno lontano, perché riguarda una parte relativamente circoscritta della popolazione e perché i dati sono ancora troppo opachi per comprenderne le effettive dimensioni, il lavoro per (e regolamentato da) le piattaforme della gig economy e dei social network che frequentiamo quotidianamente, è invece una realtà perfettamente inserita nelle nostre vite. Come spiega il sociologo Antonio A. Casilli nel suo libro Schiavi del clic, infatti, il digital labor non riguarda solo il microlavoro retribuito, ma va considerato come «un continuum tra attività non remunerate, attività sottopagate e attività remunerate in modo flessibile». In poche parole, il lavoro nell’era delle piattaforme digitali riguarda anche il tempo libero e tutte le attività da cui è possibile estrarre valore e addestrare i sistemi automatici parcellizzando le attività in sequenze compatibili con le procedure automatizzate. Che si tratti dei dati estratti dallo smartphone di un conducente iscritto a Uber o dalle interazioni tra gli utenti di una piattaforma social, le attività degli esseri umani all’interno delle piattaforme diventano compiti al servizio della macchina, in grado di perfezionare il suo apprendimento e continuare a spostare il traguardo dell’automazione un altro miglio più in là. Come ha spiegato lo stesso Yann LeCun, direttore del Fair (Facebook Artificial Intelligence Research), i moderni progressi dell’automazione non sono dovuti a nuove scoperte effettuate negli ultimi anni, ma alla disponibilità massiccia di centinaia di milioni di esempi di suoni, immagini e testi con cui nutrire le macchine allo scopo di affinarne le capacità predittive. Questi esempi sono incessantemente prodotti dagli esseri umani all’interno delle piattaforme, in cui il rapporto tra lavoro umano e automazione si fa sempre più ambiguo e problematico.

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Vive a Forlì e lavora come scrittrice e giornalista freelance. Si occupa di lavoro, tecnologia e questioni di genere; spesso di tutte e tre queste cose insieme. Collabora con l'organizzazione sindacale StreetNet International ed è co-fondatrice e speaker del podcast Anticurriculum.

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