30.04.2024

La fotografia porta via il perché dalle cose? 

Se le osserviamo senza il pregiudizio del principio di causa-effetto arriviamo a scoprire che, in fondo, le immagini non sanno nulla. E sono un’assurda magia.

A casa ho una pallina che rimbalza. Oggi l’ho presa e l’ho fatta rimbalzare sul pavimento, poi sul divano, e ancora sul davanzale di marmo. Rimbalzava sempre in modo diverso, ad altezze diverse, disegnando angoli diversi. È un evento semplice da comprendere, se ne può individuare la causa con l’intuito: il tipo di superficie genera effetti diversi, una motivazione principalmente legata alla fisica.

Per un momento, però, ho deciso di rifiutare questo tipo di spiegazione. Anzi, di non cercarne più nessuna, e riformulare tutto dal principio.

A casa ho una pallina che rimbalza. Oggi l’ho presa e l’ho fatta rimbalzare sul pavimento, poi sul divano, poi sul davanzale di marmo. Rimbalzava sempre in modo diverso. 

A questo punto ho deciso di fermarmi, dicendomi che poteva bastare così, che anche così si dice tutto dell’evento legato alla pallina che rimbalza. In questo modo, il fatto in sé può assumere una propria naturale giustificazione per il solo motivo di essere affermato e raccontare una storia nuova, tutta sua. 

Quindi ho preso la pallina, di nuovo, e tenendola con la mano dietro la schiena, l’ho lanciata in modo tale da farla cadere davanti a me dall’alto.

Qui si sono aperte due strade narrative e argomentative diverse: la pallina è caduta dall’alto perché l’ho lanciata in quel modo specifico, tenendola prima dietro la schiena e poi dandole una spinta affinché potesse compiere quella precisa traiettoria; oppure: la pallina è caduta dall’alto, e basta.

Se la pallina è caduta dall’alto, può essere, perché no, anche piovuta dal cielo, o essersi materializzata di colpo dal soffitto, essere caduta dal piano di sopra superando le barriere materiali. La pallina può iniziare ad appartenere agli eventi impossibili. 

La pallina può iniziare ad appartenere agli eventi impossibili.

Eppure io so che la stavo tenendo dietro la schiena, che l’ho lanciata in quel modo, che non può essere piovuta dal cielo: allo stesso tempo, però, non ho potuto seguire coi miei occhi tutta la traiettoria, ho dovuto e potuto scegliere un unico punto di vista. E in quel momento guardavo davanti a me, verso il muro, mentre all’improvviso una pallina è entrata dall’alto nel mio campo visivo, piovendo a tutti gli effetti dal cielo. Riprovando, ho scelto di guardare verso il soffitto, e di nuovo all’improvviso una pallina in movimento è apparsa nel dettaglio di superficie che stavo guardando.

Questo, ho pensato, è essenzialmente il meccanismo della fotografia, secondo il quale si è obbligati di volta in volta a scegliere un unico punto di vista, aspettare che un evento accada per poter dire “è successo questo”.

Questo, ho pensato, è essenzialmente il meccanismo della fotografia.

Anche quando è slegato da una causa, da una radice precisa, un evento può essere inteso come un’unità già significante, dentro la quale sono già contenuti elementi validi per raccontarlo. La peculiarità, nonché la forza, della fotografia vanno individuate infatti nel suo principio di divisione: dividere i fatti vuol dire scollegarli dall’obbligo della causalità (succede questo perché prima è successo questo) e, quindi, da una narrazione strettamente logica e argomentativa. La fotografia è in grado di creare atomi narrativi autosufficienti: se vedo l’immagine di una persona sospesa a mezz’aria, senza nulla che la sorregga, potrò anche in questo caso facilmente scorgerne la causa fisica (sta saltando), ma a tutti gli effetti, a ben pensarci, ciò che sta vedendo il mio occhio è una persona che vola. La fotografia, separando dal flusso degli eventi dei frammenti, genera narrazioni potenziali, che potrebbero non avere più nulla a che vedere con l’originaria sequenza da cui sono stati tratti.

Quante volte, d’altronde, anche il sistema dell’informazione usa al contrario questo pensiero: se in una sequenza di immagini può non esserci un reale rapporto di causalità tra di loro, può essercene uno inventato, a scapito della verità del fatto accaduto. Le prime trasmissioni giornalistiche che raccontarono della morte, avvenuta per omicidio, del Re Alessandro I di Jugoslavia, nel 1934, riportavano all’incirca questa sequenza video: la carrozza, gli spari, lo scompiglio generale, un cappello caduto per terra, i corpi delle vittime. Il giornalista racconta l’accaduto dicendo che il cappello inquadrato per terra apparteneva all’attentatore, perso durante la fuga. Il cappello, in verità, non era affatto del fuggitivo, bensì di uno sconosciuto che si era avvicinato alla calca delle persone allarmate. 

Dividere i fatti vuol dire scollegarli dall’obbligo della causalità (succede questo perché prima è successo questo) e, quindi, da una narrazione strettamente logica e argomentativa

Allora, ho alzato gli occhi su una serie di fotografie appese alla parete di casa e, descrivendo mentalmente il racconto che apparentemente intercorre tra di loro, ho iniziato a tradurne il messaggio: qui è successo questo fatto, qui c’è questa persona, e poi queste, e qui è accaduta un’altra cosa. Solo chi guarda può sapere – o immaginare – come legare tra di loro le fotografie, e individuare, se esiste, una connessione logica e narrativa; sapere che quel bambino è figlio di quell’uomo, che sta lanciando una mela e che, nell’immagine dopo, la mela sarà frantumata sul pavimento. Soltanto l’uomo sa come collegare gli eventi e sente il bisogno di farlo: le immagini non sanno nulla. L’immagine, da sola, non ha bisogno di sapere cosa accade al suo interno per poter esistere. L’immagine vive di ciò che contiene (e quante volte l’uomo ignora la complessità dei suoi elementi, si prenda per esempio Blow Up), di affermazioni che possono, in quel contesto, non avere alcuna causa rintracciabile nel mondo materiale; l’immagine può dunque vivere per eventi impossibili, per meraviglia. Scelgo un punto di vista e vedo piovere dal cielo una pallina di gomma. 

Soltanto l’uomo sa come collegare gli eventi e sente il bisogno di farlo: le immagini non sanno nulla.

Vilém Flusser, in Per una filosofia della fotografia affermava infatti: “Questo spaziotempo proprio all’immagine non è altro che il mondo della magia, un mondo in cui […] tutto partecipa a un contesto significativo. Un tale mondo si distingue strutturalmente dal mondo della linearità storica, nel quale nulla si ripete e tutto ha cause e avrà conseguenze. […] Il significato delle immagini è magico.” 

Vedere le cose nei soli dettagli che le compongono non significa necessariamente ridurle, confinarle in quanto è visibile agli occhi, ma vuol dire aprire nuovi spazi all’immaginario. Ogni evento può così essere un evento magico, votato all’assurdo: allo stesso tempo la fotografia può allora diventare lo strumento più lontano per esprimere le leggi della realtà materiale, vero e proprio motore dell’invenzione.

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