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Peggio del ghosting c’è solo l’orbiting13 min read

Peggio del ghosting c’è solo l’orbiting

Due pratiche a cui ci stiamo abituando, che nascono soprattutto sui social e nelle nostre identità digitali, con implicazioni psicologiche non trascurabili.

di Laura Carrer

La prima volta che ho letto di ghosting mi sono sentita come quando scopri che un modo di fare o una cosa hanno un nome, ma non avevi mai pensato a cercarlo. Letteralmente, il termine ghosting definisce la pratica di chiudere una relazione amicale o amorosa senza dare all’altra persona nessuna spiegazione, ed evitando qualsiasi comunicazione futura. A chi non è mai capitato di sentire, qua e là, amici o conoscenti parlare con una certa indignazione di situazioni in cui erano stati “ghostati” o che “ghostavano” qualcun altro.

Da alcuni anni, per lavoro, guardo da vicino le tecnologie digitali, il loro utilizzo, l’impatto che hanno su alcuni gruppi della nostra società, la rilevanza che hanno assunto sulle e nelle nostre vite. Il modo di comunicare è cambiato molto: se in adolescenza la mia generazione usciva e si presentava in un luogo, oggi organizza una cena attraverso WhatsApp, manda la geolocalizzazione se qualcuno non trova la strada e poi, nel mentre o a fine serata, condivide le foto scattate su Instagram o su Facebook. Sulla scia di questo cambiamento, guardando all’architettura ed al funzionamento dei social network, non ho potuto fare a meno di notare come l’impatto che queste piattaforme hanno sulla nostra quotidianità sia in continua evoluzione.

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Il significato del ghosting e dell’orbiting nell’era digitale

Non solo le dinamiche del ghosting sono raccontate nei discorsi tra amici o conoscenti, e quindi in una ristretta cerchia, ma sono dinamiche sempre più sociali e generali, che si inaspriscono dal momento in cui viviamo in una società che esalta e promuove un continuo stato di ubiquità e presenza online che completi, o addirittura sostituisca, quella offline. Non c’è più una differenza tra questi due “stati” bensì una compenetrazione degli stessi, e quindi a questo punto il ragionamento che mi sono fatta sul ghosting cominciava a diventare più complesso: se consiste nell’interruzione di una comunicazione con un’altra persona, e oggigiorno la comunicazione è in gran parte mediata dalla tecnologia, allora questo fenomeno non può che essere presente sui social network.

Badate bene, non sto parlando del nulla: all’interno di un più grande studio sulle relazioni affettive e romantiche realizzato nel 2019 da alcuni ricercatori americani su un campione di 554 persone – composto da uomini, donne, transgender appartenenti a diverse minoranze etniche e bianchi, con vari orientamenti sessuali ed estrazione sociale – il 45,3% conosce non solo la pratica del ghosting ma anche i comportamenti che ne definiscono l’attuazione. Non essere ricontattati al telefono, non rispondere a messaggi né chiamate, togliere l’amicizia o il follow sui social media, o anche fare finta che l’altra persona non esista più. Ora forse avrete capito perché sto scrivendo questo articolo e, magari, state iniziando a farvi un’idea di quale sia il ruolo della tecnologia in tutto ciò.

Ho pensato che il ghosting non fosse solo una pratica ormai già abbastanza discussa o che ci può capitare di vedere con i nostri occhi o di riconoscere nel nostro o altrui comportamento online, ma che ci potesse essere dell’altro. Il dubbio che fosse un fenomeno sociale mi ha assillato per alcuni giorni, un po’ per curiosità e un po’ perché mi sono laureata in sociologia, ma non ne trovavo conferma né su internet né sulle riviste di settore.

Questione di tempo, perchè un giorno mi sono imbattuta in una ricerca scientifica pubblicata sul Journal of Social and Personal Relationships nel marzo 2021 e realizzata, pensate che caso, da alcuni ricercatori dell’Università di Milano-Bicocca e dell’Università Statale di Milano. Finalmente, ho pensato: non solo c’era uno studio scientifico ma i ricercatori si erano fatti più o meno le mie stesse domande. A detta loro, nonostante il ghosting sia conosciuto a livello mediatico, è un fenomeno ancora largamente sconosciuto in campo scientifico e soprattutto porta a risposte psicologiche e comportamentali. 

Lo studio è stato condotto adottando la prospettiva della vittima su un campione di 208 giovani adulti (prevalentemente donne), ai quali è stata assegnata casualmente una pratica tra ghosting, orbiting e rifiuto. Ora vi chiederete cosa sia l’orbiting e vi accontento subito: in pratica esistono persone che seppur interrompendo le comunicazioni con una persona, rimangono nell’”orbita” del malcapitato/a. L’esempio classico è l’ex partner con il quale non avete più a che fare ma che inspiegabilmente vi chiede nuovamente l’amicizia su Facebook oppure comincia a guardare tutte le stories che pubblicate su Instagram.

L’orbiting non è altro che il mantenimento ostinato di un contatto virtuale, che permette di rimanere informati sulle attività, mantenere legami con i contatti in comune e esercitare una sorta di controllo psicologico sull’altra persona. Entrambe le dinamiche hanno in comune l’unilateralità della decisione oltre alla matrice di derivazione social.

Ora avrete capito sicuramente quale possa essere il ruolo delle piattaforme in questi due fenomeni che, con molto meno impegno rispetto ad un incontro dal vivo, possono essere replicati online facilmente. Lo studio li analizza rapportandoli al rifiuto (rejection) attraverso la lente dell’ostracismo, ovvero identificando le pratiche del ghosting e dell’orbiting come forme di esclusione “digitale”. Nel 2018, Rebecca B. Koessler definisce il primo come una strategia di rottura e allontanamento senza compassione alcuna e mediata dalla tecnologia. Chi agisce in questo modo sarebbe incapace di comunicare la sua volontà di mettere fine ad una relazione, percependo conveniente e sicuro farlo attraverso una mediazione. 

Tornando allo studio i ricercatori si sono limitati a fornire alcune domande aperte ai partecipanti, che non avevano limiti di parole per rispondere, e che poi sarebbero state analizzate da un punto di vista psicologico e comportamentale. Come si può immaginare tutte e tre gli stati – ghosting, orbiting, rifiuto – sono stati vissuti molto negativamente, anche se ci sono specifiche differenze quando la tecnologia entra in gioco come discriminante in questa o quell’altra pratica.

Quando veniamo rifiutati da qualcuno per varie ragioni ci rimaniamo sì male (proviamo sorpresa e spiazzamento), ma siamo anche in grado ad un certo punto di farcene una ragione e andare avanti. Nel momento in cui una persona sparisce senza dare conto (e i messaggi/chiamate sono l’unico mezzo di comunicazione del vostro rapporto) oppure continua a “guardarti online” attraverso i social media, allora allo spiazzamento si aggiunge anche la confusione data dagli ambigui comportamenti dell’altro. Inoltre la difficoltà di chiedere spiegazioni – perchè siete stati esclusi – rincara la dose di disorientamento che di lì a poco porta a volte anche a sentimenti di rabbia ed ingiustizia, nonché a senso di colpa e responsabilità per aver potenzialmente fatto qualcosa di sbagliato in passato, senza averlo capito. 

Una persona intervistata nello studio racconta di “essersi sentita giudicata e condannata senza appello né diritti”, così come un’altra racconta che “l’unica cosa destabilizzante e noiosa [del comportamento di un “orbiter”, nda] era quella di sentire la sua presenza sui social media”.

È chiaro come la necessità (o l’insistenza) delle nostre comunicazioni online e quindi l’uso della tecnologia e delle piattaforme renda i due fenomeni una reinterpretazione di quello che la letteratura sull’esclusione sociale chiama ostracismo: secondo i ricercatori, mentre gli aspetti psicologici e comportamentali possono essere infatti ricondotti ad un framework tradizionalmente psicologico, le comunicazioni online e la tecnologia digitale hanno un loro ruolo definitivo, semplificando la realizzazione di questi comportamenti.

Nonostante l’analisi citata sia uno dei pochi studi attualmente disponibili, fornisce già una possibile interpretazione dei due fenomeni e lascia a mio parere aperto il campo ad almeno altre due significative riflessioni. Infatti, non solo i social media e le piattaforme tecnologiche con le quali accediamo e ci interfacciamo al mondo semplificano la possibilità di agire queste pratiche, ma potenzialmente le favoriscono anche. Siamo online e attraverso il nostro profilo – che sia pubblico o privato – forniamo informazioni sulle nostre attività, i cambiamenti della nostra vita, le intenzioni future. E questo lo facciamo perché come esseri umani siamo propensi a condividere le nostre emozioni, ciò che facciamo o che pensiamo. Ed è proprio questo che i social network sono stati in grado di rendere un modello di business. 

I social network hanno ritagliato un modello di business sulle nostre attività online e sulle nostre intenzioni future, affinando gli algoritmi a tal punto che le implicazioni hanno sorpassato la sfera dell’intimità individuale, diventando anche materiale a disposizione delle persone attorno a noi favorendo e rendendo più invasive pratiche come il ghosting e l’orbiting.

L’orbiting non è altro che il mantenimento di un contatto virtuale a volte indesiderato (che può sfociare nell’essere bloccati da una persona) con l’altro, che permette all’orbiter di rimanere “informato” sulla vita della persona ed esercitare un possibile controllo psicologico, cosa che nella realtà sarebbe più difficile mettere in atto. 

In entrambi i fenomeni la scelta di iniziare o interrompere e di come gestirla è presa da una delle due persone senza interpellare l’altra, e provocando stati d’animo molto negativi: “mi sentivo preso in giro” dice un partecipante, “avevo l’impressione di essere un fantasma. Ero ancora lì, vivo, ma trasparente. Ero in grado di agire, ma non di raggiungere l’altra persona”.  

Ma pensandoci c’è anche un altro aspetto da considerare. Partiamo dal presupposto che i social network funzionano attraverso algoritmi proprietari che definiscono – dopo essere stati programmati – i contenuti, le relazioni, i discorsi da proporti e con i quali ingaggiarti. Non abbiamo informazioni definite sul funzionamento dell’algoritmo di ogni piattaforma, possiamo sapere come si comporta in un dato momento ma ciò non vuol dire che sarà per sempre cristallizzato in quella forma. Guardando al funzionamento di Instagram, ad esempio, se sperimentiamo un po’ scopriamo che è attualmente è più probabile vedere i contenuti di qualcuno con il quale interagiamo spesso o che ricerchiamo, anche senza seguire direttamente attraverso il follow. Nel caso dell’orbiting ciò significa vedere sempre più spesso le immagini di una persona sulla propria home, e quindi potenzialmente continuare a reiterare l’azione di controllo e osservazione dell’altro da lontano. Un comportamento controproducente anche per chi lo mette in atto e non solo per chi lo subisce, insomma. 

Non dimentichiamo poi che avere l’impressione o la certezza di essere continuamente osservati, non solo dai propri follower ma da specifiche persone, può modificare oltremodo alcuni comportamenti. Il fatto di pubblicare un contenuto o un altro diventa il modo di comunicare con chi presumibilmente ci osserva o che noi stessi osserviamo, dando spazio a possibili fraintendimenti o causando stress e ansia tipiche dell’engagement che ci impone il social network. 

In ambito scientifico le analisi in questo senso sono estremamente ridotte. Ci si concentra sugli aspetti più visibili dell’utilizzo della tecnologia e dei risvolti che ha sulle nostre vite, sulla definizione di un ideale di corpo o dell’identità ad esempio. La pervasività della tecnologia digitale nelle nostre vite è ancora purtroppo unita all’incapacità di conoscere molti aspetti dei mezzi di comunicazione che ci permettono di rimanere collegati. E certamente la Silicon Valley non aiuta: ehi Zuck, ci senti?


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Ricercatrice e giornalista freelance si occupa di tecnologia e dell'impatto che questa ha sulla società, con focus sulla sorveglianza di stato e sulle ripercussioni che le piattaforme digitali hanno su alcuni gruppi sociali.

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