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Per un’ecologia politica della musica14 min read

Per un’ecologia politica della musica

Qual è il rapporto tra gli oggetti con cui consumiamo musica e la crisi climatica?

di Fiamma Mozzetta

Sono dottoranda di ricerca in popular music e mi occupo principalmente dei punti d’incontro tra la musica e la storia, affrontando temi come la memoria, la nostalgia, la tradizione e così via. Ma sono anche una cittadina, come tanti, preoccupata dai cambiamenti climatici che ogni giorno viviamo sulla nostra pelle. Mi chiedo già da un po’, dunque, come far combaciare le mie ricerche in ambito musicale con la crisi climatica in corso. Qualche mese fa, in occasione di un incontro con altri ricercatori, si parlava proprio di sostenibilità e musica, e condividendo le mie perplessità sono stati proprio loro a indicarmi una serie di temi che toccavano sia le mie ricerche, sia le mie preoccupazioni. In modo particolare, tutti hanno fatto riferimento al mantenimento e la preservazione dei materiali d’archivio (fisici o digitali che siano). A seguito di questo incontro ho continuato a fare ricerca in questo ambito e a chiedere ad amici più preparati alcuni testi fondamentali che potessero indirizzarmi, per andare oltre ai soliti articoli sugli artisti che si stanno impegnando a diventare “green”. A ogni modo, le mie ricerche sull’argomento hanno portato a poco o niente: nonostante le grandi iniziative che si focalizzano in particolar modo sulle questioni relative alla musica dal vivo, sembra mancare un discorso effettivamente sistematico su tali questioni, sia nel mondo del giornalismo sia in quello accademico.

Con l’aumento dell’interesse – sia da parte dei musicisti, sia da parte del pubblico – verso la questione climatica, anche il giornalismo musicale ha fatto la sua parte, eppure il dibattito rimane sempre concentrato sulle iniziative dei singoli – come, ad esempio, l’attivismo di Brian Eno raccontato dall’NME qui e dal Guardian qui – o sulla musica dal vivo, ignorando quasi completamente l’impatto della tecnologia che accompagna la fruizione quotidiana. In un articolo pubblicato su Mixmag ad aprile di quest’anno, Gemma Ross discute alcune tematiche legate alla sostenibilità e alla musica dal vivo, specialmente dei festival estivi. L’articolo comincia citando delle statistiche alquanto deprimenti: nel 2019, 1000 DJ hanno effettuato più di 51.000 voli aerei, pari all’equivalente di CO2 prodotta da 20.000 case in un anno. Continua poi illustrando l’impegno dell’International Music Summit, di A Greener Festival, di The Climate Gig e di altri progetti ancora. Nonostante sia un tantino più dettagliato e di ampio respiro rispetto alla media delle pubblicazioni sull’argomento, l’articolo di Gemma Ross, rimane comunque sulla superficie dei problemi che riguardano la musica e l’ambiente. L’industria musicale sembra essere al tempo stesso l’unico problema e l’unica soluzione a tutto. 

Un’ecologia politica della musica si interessa delle materie prime che servono a produrre questi oggetti e quindi da dove vengono, chi li lavora e come li lavora.

Nel mondo accademico, invece, la situazione sembra essere ancora più drammatica. Una ricerca superficiale con parole chiave riporta quasi a niente, nessun nome, nessun articolo, nessun libro. Insomma, non sembra esserci nessuno nel campo della musicologia (e campi affini) ad essere interessato all’argomento. Chiaramente, al netto di quegli autori e autrici che si occupano di ambiente sonoro, di ecoacustica, e in generale delle possibili relazioni tra musica, suono e l’ambiente naturale. Attraverso una ricerca più approfondita riesco a far luce su quei pochi nomi che costituiscono un’eccezione a questa tendenza. In campi di studio come l’etnomusicologia, ad esempio, questi argomenti girano da un po’, ma anche qui non vi è mai un discorso a più ampio respiro sulle tecnologie musicali, la fruizione individuale, la preservazione dei materiali e così via. Il discorso etnomusicologico si interessa principalmente della necessità di “salvaguardare” quelle culture musicali (dalle comunità intere ai singoli generi) che sono in pericolo di estinzione a causa di diversi fattori, tra cui quelli climatici. Gli studi nel contesto Australiano di Jill Stubington e Allan Marett, ad esempio, o il più noto lavoro di Alan Lomax nel sud Italia.

Traendone una conclusione veloce sarebbe sensato pensare che in entrambi i mondi, quello del giornalismo e quello dell’accademia, la musica sia ancora considerata come un “oggetto” immateriale, privo di legami con la realtà fisica, a esclusione di quegli aspetti relativi alla dimensione dell’ascolto collettivo, quali il festival, il concerto, i rituali collettivi. E anche in questi casi, la dimensione dell’ascolto rimane astratto, spirituale, emotivo. Ciò che rimane escluso da questo discorso è dunque l’ascolto individuale – la musica registrata – e con l’ascolto individuale tutto ciò che materialmente ne permette la fruizione. Non si pensa quasi mai al formato, alla sua produzione, né al supporto di riproduzione sul quale viene ascoltato, e tantomeno al cestino nel quale dovrà essere gettato, dato che come qualsiasi oggetto prima o poi dovrà rompersi o semplicemente consumarsi.

Anche qui, grazie all’aiuto dei colleghi-amici, sono riuscita a venire a conoscenza di alcune eccezioni. Una su tutte è il lavoro di Kyle Devine, professore all’Università di Oslo e autore di Decomposed. The Political Ecology of Music uscito nel 2019. Decomposed si presenta proprio come una ricostruzione storica e politica dei singoli formati: dallo schellac dei 78 giri (usati tra il 1900 e il 1950) alla plastica degli LP, delle cassette e dei CD (tra il 1950 e il 2000, anche se potremmo dire fino ad oggi), fino al digitale degli mp3, del FLAC, dei download e dello streaming. Ma prima di soffermarmi (seppure sempre brevemente) sulle caratteristiche di questi formati, mi piacerebbe introdurre l’aspetto politico che Devine sottolinea all’interno della sua ricerca. La political ecology (ecologia politica) che abbiamo già incontrato nel titolo si rifà al lavoro dei teorici (come Roderick P. Neumann) interessati all’ecologismo politico e suggerisce la necessità di un’ecologia politica della musica. Il concetto è denso, spiega Devine, ma può essere riassunto come l’attenzione critica verso le forme sociali che collegano l’ambiente materiale che ci circonda alla nostra cultura. Questo implica un interesse verso la produzione, la fruizione o il consumo, e infine lo smaltimento di vari prodotti. Viene da sé che un’ecologia politica della musica non sia nient’altro che lo studio critico dei mezzi che servono a produrre gli oggetti musicali – non solo i dischi ma anche gli strumenti, le partiture, le cuffie, il giradischi, gli amplificatori, i cavi e altro ancora – così come delle modalità in cui questi oggetti vengono utilizzati, smaltiti e riciclati. Un’ecologia politica della musica si interessa inoltre delle materie prime che servono a produrre questi oggetti e quindi da dove vengono, chi li lavora e come li lavora, e così via.

Riprendendo il discorso sui formati di Devine, più che sul digitale (del quale si fa già un gran parlare) vorrei soffermarmi sui primi due materiali: shellac e plastica, e nello specifico 78 giri e 33 giri. Lo shellac, o resina di gommalacca, è la secrezione di alcuni insetti che si trovano nelle foreste dell’India e della Tailandia. Verso la fine del diciannovesimo secolo questo materiale veniva utilizzato per la produzione di diversi oggetti, come i bottoni, ma è solo con l’avvento del grammofono che l’industria dello shellac registra un’esplosione. L’incremento nelle vendite fece schizzare non solo il prezzo ma anche la produzione. A metà del ventesimo secolo si registravano all’incirca 300 milioni di dischi l’anno e 40 milioni di kg di resina prodotti solo in India. Come sottolinea Devine, ci vogliono milioni di insetti e numerosi ettari di terra per produrre almeno un kg di resina di gommalacca, e il tutto può portare prevedibilmente all’uso dei pesticidi e alla morte degli alberi che ospitano questi insetti. I 78 giri non erano però formati solo dalla resina, ma erano una miscela di minerali, fibre e lubrificanti, come la polvere di ardesia e calcare. Quest’ultimo veniva estratto principalmente negli Stati Uniti, in Indiana per essere precisi, e la sua estrazione era pericolosa per l’ecosistema tanto quanto lo era la resina in India.

Dalla resina di gommalacca dei 78 giri fino ai file digitali, passando per il PVC dei vinili, il mondo della tecnologia musicale ha sempre fatto uso di queste risorse, senza che il consumatore ultimo se ne rendesse conto, o che quantomeno criticamente ne prendesse atto.

Il passaggio dallo shellac alla plastica (o meglio al PVC), e quindi dai 78 ai 33 o 45 giri, è avvenuto tra gli anni Quaranta e Cinquanta e sembra essere riconducibile non solo a quello che molti definiscono l’avanzamento tecnologico e cioè alla migliore resa sonora, ma anche ad aspetti politici ed ecologici dettati dalla carenza di shellac durante la seconda guerra mondiale. La crescita della produzione di dischi formati principalmente da PVC – un polimero sintetico conosciuto come polivinilcloruro e derivato dall’etilene, un prodotto petrolchimico – era anche dettata dal fatto che il PVC portò l’industria musicale a stringere proficui accordi con l’industria petrolchimica. Oltre agli aspetti economici e materiali, anche il fattore, per così dire, simbolico del nuovo formato ha giocato un ruolo nel passaggio dallo shellac alla plastica. Il 33 giri, più che i 45, cominciava ad essere sempre più considerato un oggetto di culto legato alla nascente storia della musica rock e pop. Inoltre, la fragilità dei 78 giri (molto più proni a non durare nel tempo) era contrastata dalla durevolezza della plastica che si presentava come un materiale più solido e conveniente. Sebbene più durevoli, Devine si chiede che cosa succederà ai vinili che non potremmo più far girare, per un motivo o per l’altro. Tecnicamente il PVC può essere riciclato, ma questo non sembra essere conveniente economicamente. La simbologia del disco, del 33 giri o dell’LP, come vogliamo chiamarlo, formatasi negli anni Quaranta e Cinquanta e che continua fino ad oggi, è probabilmente la causa principale del suo revival e del collezionismo. I dischi che non utilizzeremo quindi saranno un peso forse non tanto per l’ambiente, ma per le nostre case e per i nostri scaffali dove nel tempo continueremo ad accumularli.

La mia è solo una brevissima introduzione alle tematiche che Devine affronta in Decomposed, poiché certamente si tratta di questioni molto più complicate. Già da questi brevi accenni emerge però un aspetto determinante, ossia  l’importanza dei supporti di riproduzione della musica all’interno del cambiamento climatico e la duratura e inestricabile connessione di essi allo sfruttamento delle risorse naturali e umane. Dalla resina di gommalacca dei 78 giri fino ai file digitali, passando per il PVC dei vinili, il mondo della tecnologia musicale ha sempre fatto uso di queste risorse, senza che il consumatore ultimo se ne rendesse conto, o che quantomeno criticamente ne prendesse atto. Il già citato ritorno del vinile, Devine conclude, è un processo che può essere ricondotto più al cosiddetto “petrocapitalism” – e quindi a quelle frange del capitalismo legate alla produzione e al consumo del petrolio – che a un interesse vero e proprio delle nuove generazioni di ascoltatori.

Vorrei però concludere con qualche nota positiva, indicando qualche recente esempio di attivismo relativo alla produzione degli oggetti musicali. Rimanendo nell’ambito dei 33 giri, la House of Marley e il progetto Green Vinyl Records sono due dimostrazioni di come le cose possano e debbano cambiare all’interno dell’industria. La House of Marley è un’azienda formata dalla collaborazione con la famiglia Marley per portare avanti l’amore di Bob Marley per la musica e per il nostro pianeta. L’azienda produce giradischi, casse, cuffie e auricolari, tutti prodotti con materiali riciclati o riciclabili (dal bambù alla plastica riciclata, passando per il legno, l’alluminio, il silicone non tossico e il cotone organico). Green Vinyl Records, invece, è un progetto nato dalla collaborazione di otto compagnie olandesi, ricercatori e persone del settore che si sono uniti per cercare di trovare un’alternativa alla classica produzione del vinile. L’alternativa più sostenibile non riguarda solo la scelta di un materiale diverso dal PVC (e quindi dai suoi componenti tossici) ma riguarda anche la riduzione dell’energia e delle risorse usate durante la pressatura. Un ultimo esempio è l’etichetta Underwater Computing_, specializzata in musica elettronica e ambient che produce un’ampia gamma di formati, tra cui dischi, CD, cassette, e minidisc. La peculiarità di Underwater Computing_ è che alcune delle loro uscite sono prodotte interamente con materiali riciclati, dal formato al packaging. Soprattutto nel caso di alcune loro uscite “signalwave” (un sottogenere della più nota vaporwave) anche la musica è riciclata, ma qui si aprirebbe un altro articolo.


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È dottoranda di ricerca alla Goldsmiths di Londra in popular music e si occupa di musica e tempo: memoria, patrimonio culturale, archivistica e storiografia pop. Collabora con riviste accademiche e non come openDemocracy, Not, Blow Up, Musica/Realtà.

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