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come creare un archivio

Principio di un archivio14 min read

Principio di un archivio

«Si dice che per capire un archivio occorra conoscere a fondo chi l’ha creato, e per conoscere chi lo ha creato non si possa fare a meno dell’archivio»

di Andrea Montorio

Quello che segue è un estratto dal secondo capitolo di Promemoria. Come creare l’archivio dei propri ricordi di Andrea Montorio, pubblicato da Add Editore. Ringraziamo l’autore e l’editore per la gentile concessione.

«Promemoria: Come creare l'archivio dei propri ricordi» di Andrea Montorio

«Veniamo al mondo per svolgere un compito, e a ciascuno è dato il tempo di portarlo a termine.» Sarebbe bello poter condividere questa frase, forse troppo ottimista, pronunciata da una protagonista della serie Fargo sul letto di morte.

Bisognerebbe conoscere qual è il nostro compito, e soprattutto chi è stato ad assegnarcelo. Probabilmente questo principio, più che per la vita umana, vale per gran parte delle cose che ci circondano. I secondi di una risata prima di spegnersi, le ore di una notizia prima che non sia più una notizia, i mesi di un telefono prima di rompersi, le stagioni di un abito prima che passi di moda: a tutto è attribuita una quantità di tempo che è in stretto rapporto con la sua funzione. Uno dei poteri magici dell’archivio è quello di prolungare il tempo stabilito per ogni cosa, non fermando lancette o rimandando scadenze, ma dandole un nuovo scopo dopo che quello per cui è nata si è esaurito. Ciò che l’archivio ci restituisce è qualcosa di profondamente differente da ciò che vi è entrato: il suo senso subisce una metamorfosi, da oggetto d’uso a memoria, da memoria a emozione, senza che quasi ce ne accorgiamo.

Provo a farvi un esempio: le tovaglie. Ne esistono vari tipi, che si distinguono non soltanto per la durata nel tempo, ma anche perché destinati a momenti – e dunque a ricordi – di genere diverso. Conservo un paio di tovaglie cosiddette “da corredo” che sono arrivate fino a me attraversando svariate generazioni, e che mi porto dietro, ben impacchettate, di trasloco in trasloco. Se la memoria degli oggetti resistesse ai passaggi in lavanderia, le mie due tovaglie ricorderebbero pranzi di gala, capodanni, ospiti importanti: poche occasioni, ma tutte “speciali”.

Poi ci sono le tovaglie “da tutti i giorni”, quelle che si usano fino a che si stingono o si strappano, o vengono condannate da una macchia che non va più via. Riprendendole in mano mi tornano in mente stagioni passate, cucine non più mie, ricette che non assaggio da un po’, quotidianità diverse da oggi. Scendendo la scala della dignità delle tovaglie, passando da runner, mollettoni e cerate, si arriva fino alle tovagliette di carta usa e getta, la cui vita dura lo spazio di un pasto, e di solito non dei più eleganti. Ebbene, uno degli episodi più importanti e ricchi di conseguenze della mia esistenza è proprio legato a una tovaglietta di carta.

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Mentre una biblioteca, un museo o una collezione possono raccontare altri mondi e altre storie, un archivio è sempre lo specchio di chi l’ha prodotto. Perciò, più che con il passato, l’archivio ha a che fare con l’identità.
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Non è un ricordo in bianco e nero, anche se di cose da allora ne sono successe: nel momento in cui leggerete questo libro saranno passati da poco dieci anni. All’epoca ero un giovane collaboratore del sociologo Luciano Gallino, per un progetto sperimentale sulla storia dell’industria. Un lavoro che mi aveva appassionato fin dal primo giorno, anche se non era proprio quello che sognavo di fare da grande. E qui apro una parentesi: non sono tanto d’accordo che per trovare la propria strada valga il principio “fai ciò che ami”, ma piuttosto quello di “cerca di amare ciò che fai”. Anche perché, se tutti realizzassimo i nostri sogni infantili, vivremmo in un mondo con più vigili del fuoco che fuochi su cui vigilare.

Tornando alle ricerche che conducevo per il progetto, mi ero accorto che non esistevano strumenti e metodi con cui le aziende potessero valorizzare la loro memoria. Così, da qualche tempo, pensavo a come creare qualcosa di nuovo. Ne parlai con una collega con cui portavo avanti la ricerca. Gisella era – o meglio è – la mia collega, la preferita. Per intenderci, il genere di persona con cui basta uno sguardo per capirsi, per ridere, per decidere… con cui basta uno sguardo, insomma.

Tutti noi, ne sono convinto, nella vita abbiamo un sacco di buone idee, molte delle quali non arrivano nemmeno a essere comunicate a qualcuno e, anche quando vengono raccontate, la loro speranza di vita non supera il tempo di una chiacchierata. Quel giorno però, in un dehor del centro, mentre le parlavo di che cosa avevo pensato, Gisella fece qualcosa di determinante. Scostò il piatto, e cominciò a scarabocchiare sulla sua tovaglietta di carta riciclata. Non gliene ho mai parlato, ma credo che la sua potrebbe essere una forma magica di grafomania. Non scrive per poi rileggere le cose, quanto per farle accadere. Così, a un tratto, mentre mi ero interrotto un secondo per portare la forchetta alla bocca, alzando lo sguardo dalla tovaglietta Gisella disse: «Bene. Proviamoci!». Ecco: in quel momento cominciava la nostra avventura imprenditoriale.

Non voglio farla troppo semplice, la nascita di un’impresa passa attraverso lunghi ragionamenti, piani precisi, discussioni, ripensamenti, notai, incontri e investimenti, ma ogni storia vuole il suo inizio, e il nostro inizio è in quel dehor, a uno dei tanti bivi che capitano nella carriera e nella vita di ciascuno, dove la minima variabile può far imboccare una strada anziché un’altra. Di certo la tovaglietta divenne il primo documento del nostro archivio aziendale. Questo intendevo dicendo che l’archivio prolunga la vita delle cose che custodisce dando loro un nuovo scopo: una tovaglietta usa e getta alla fine del pranzo smette di svolgere la sua funzione naturale – quella di assorbire le macchie di sugo – ma può trasformarsi in una testimonianza, in un veicolo di informazione, nel supporto che tiene in vita la fragilità di un’idea.

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In termini tecnici, si parla di “ciclo di vita dei documenti”. In una prima fase utilizziamo le cose per la ragione pratica per cui sono state prodotte, come quando teniamo la ricevuta di un acquisto nell’eventualità di doverlo cambiare. Nella seconda fase, quando ormai il termine del cambio è scaduto, teniamo la ricevuta un po’ per inerzia e un po’ perché potrebbe anche servire a ricostruire una spesa. Nella terza, se sopravvive alla periodica spietata pulizia del portafogli, la ricevuta potrà ricordarci – ad esempio – l’amico cui avevamo comperato quel regalo. È in questa fase che anche una semplice ricevuta può trasformarsi in un pezzo della nostra storia: nel momento in cui tiene viva l’eco di un vecchio regalo, un amico sorpreso, un’emozione passata…

Il valore di un documento o di un oggetto, una volta in archivio, non ha più nulla a che vedere con quello materiale che aveva in origine: dipende soltanto da quanto è prezioso il messaggio che porta con sé. Per questo una tovaglietta, nel mondo degli archivi, può valere più di tutte le tovaglie di una vita.

Ogni archivio vive questi passaggi, e anche la nostra memoria funziona così: c’è una “memoria di lavoro” che conserva le informazioni utili per portare a termine un compito, e una “memoria a lungo termine” in cui hanno sede i ricordi veri e propri, con una fase intermedia di sedimentazione in cui i dati possono sparire, oppure consolidarsi dando una nuova forma alla nostra mente. L’archivio assomiglia alla memoria non solo perché conserva il nostro passato, ma soprattutto perché è qualcosa cui diamo forma e che si struttura, strato dopo strato, accompagnando la nostra esistenza (o quella di un’azienda, di un’istituzione, di una famiglia).

È questa la caratteristica principale che differenzia un archivio da una biblioteca e da un museo, rendendolo qualcosa di opposto a una collezione. Possiamo decidere quali libri o quali oggetti acquistare, oppure decidere di non acquistarne affatto, ma al contrario non possiamo scegliere quali tracce lasciare del nostro passaggio nel mondo, né evitare di generarne. Come quando camminiamo sulla spiaggia: è impossibile non imprimere le nostre orme; quello che spetta a noi è decidere se ignorarle o se voltarci indietro, se confonderle o se interpretarle come dei promemoria, per ricordarci da dove veniamo e intuire dove siamo diretti.

Sono segni del tempo attraverso il tempo, e se si conservano abbastanza a lungo può anche che qualcun altro voglia seguirli. La durata di un’impronta prima di essere cancellata dipende dalla sua profondità. Per i ricordi vale la stessa cosa. Mentre una biblioteca, un museo o una collezione possono raccontare altri mondi e altre storie, un archivio è sempre lo specchio di chi l’ha prodotto. Perciò, più che con il passato, l’archivio ha a che fare con l’identità.

Si dice che per capire un archivio occorra conoscere a fondo chi l’ha creato, e per conoscere chi lo ha creato non si possa fare a meno dell’archivio. Sembra un circolo vizioso, ma è proprio così: senza la tovaglietta di Gisella mancherebbe un tassello importante per ricostruire la storia della nostra azienda ma, per chi non sa chi siamo, la tovaglietta non è altro che un pezzo di carta scarabocchiato.

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"Promemoria. Come creare l'archivio dei propri ricordi" di Andrea Montorio, pubblicato da Add Editore

Dal momento che lavoreremo insieme al nostro archivio personale, teniamo presente che ogni cosa è degna di farne parte. Non c’è niente che non possa trasformarsi in documento. Questa regola è valida in generale, e ancor di più in questo libro, che non parla di archivistica in senso stretto, ma di vita. Fotografie, giocattoli, appunti, vestiti, messaggi, piante, cartelle sul computer, tovaglie e tavoli: vale tutto, purché contenga una testimonianza di come siamo arrivati a essere chi siamo. Certo, dire “testimonianza” è troppo vago. Un conto è ricostruire quanto ho speso di elettricità tra aprile e maggio, un altro è registrare un’emozione. Anche perché, e qui veniamo a un altro punto fondamentale, l’archivio deve comunicare, deve farsi racconto.

Quando un oggetto termina la sua funzione naturale ed entra a far parte dell’archivio, in qualche modo smette di essere solo nostro e diventa un “testo” che deve parlare un linguaggio comprensibile agli altri. Se guardando la fantasia di una mia vecchia tovaglia vengo assalito dalla nostalgia, questo non rende la tovaglia un documento, perché su di voi, che non avete i miei stessi ricordi privati, non produrrebbe alcun effetto. Al contrario la tovaglietta di Gisella, con gli appunti che contiene, dirà davvero qualcosa sulla nostra storia a chi avesse voglia di approfondirla.

Costruire e organizzare un archivio è un po’ come mettere un messaggio in una bottiglia e lasciarlo in balia del fiume. Il destinatario potrebbe essere chiunque, anche noi stessi molto più a valle, e molto cambiati: la cosa importante è che quando il messaggio verrà raccolto e letto, possa essere capito. Proprio per questa ragione, come dicevo, ciò che è più difficile trasmettere agli altri con un codice comprensibile sono le cose che il linguaggio stesso stenta a esprimere, quelle apparentemente legate alla soggettività: le sensazioni, i sentimenti, le passioni, le intenzioni. A me piace chiamarle “memorie emotive”. È difficile, ma allo stesso tempo è uno dei compiti più importanti che possiamo darci, la ragione più profonda e affascinante per mettere mano al nostro archivio personale.

di

Nato nel 1974, è co-fondatore di Promemoria Group, la prima realtà italiana specializzata nel recuperare, proteggere e valorizzare la memoria storica di grandi aziende, istituzioni culturali e collezioni private. È uno dei creatori del festival “Archivissima” e della “Notte degli Archivi” ed è editore del magazine “Archivio”.

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