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Questa storia parla delle Furie11 min read

Questa storia parla delle Furie

Un estratto da Le Furie di Valerio Callieri, edito da Feltrinelli.

di Valerio Callieri

Pubblichiamo un estratto da “Le furie” di Valerio Callieri, pubblicato da Feltrinelli. Ringraziamo l’autore e l’editore per la gentile concessione.

La terra accoglieva il caldo umido di settembre e il cielo nascondeva il suo colore dietro nuvole voluminose ma, tutto sommato, indulgenti. La Piccola Città era cambiata molto dal giorno freddo di sessant’anni prima in cui era nata Clementina. Un albero che aveva perso le sue radici contadine e, quasi con rabbia, estendeva in orizzontale i suoi rami di plastica e bitume. Adesso c’erano un supermercato, una pista da bowling, parcheggi a pagamento, nuove palazzine sgraziate e un ristorante cinese.

All’interno del Drago Dorato, Leonardo sbocconcellava un raviolo di gamberi seduto da solo al tavolo che correva lungo la vetrina e si affacciava sulla strada. Lian, la cameriera, si stupì non solo dell’avida abilità con cui l’anziano signore mantenne metà raviolo pressato tra le due bacchette, ma anche del fatto che avesse continuato a masticare dopo che un corpo umano aveva urtato violentemente contro la vetrina del ristorante. Sulla strada c’era un parapiglia di persone e automobili, nel ristorante vuoto si sentiva solo lo scalpiccio tra le mandibole di Leonardo.
Questa storia parla del corpo umano che urtò contro la vetrina e di tutte le persone che furono raggiunte e avviluppate dalla tela di ragno che continuò a estendersi nel vetro colpito.
E, naturalmente, la storia parla delle Furie.

Pochi minuti prima, Clementina con la sua Golf bianca aveva imboccato la discesa che termina al semaforo all’angolo del ristorante. Stringeva il volante oltre il necessario e poggiava leggermente il piede nudo sulla frizione per scalare marcia e rallentare con il freno motore. Si era voltata verso Matteo e aveva detto: “E comunque, non ti sei scocciato di questi ragazzini?”.

“Pensa quanto saranno felici se andiamo in finale!” Matteo aveva dato tre colpi sul cruscotto usandolo come un tamburo.
“Ti dovresti essere scocciato. Questi allenamenti ti levano tempo. Poi ti alzi a fatica e, diamine, arrivi stanco al lavoro.”
“Mamma, è molto rosso!” Matteo aveva puntato l’indice in avanti.
“L’ho visto,” aveva sbuffato Clementina.
“Io mi sono scocciato dei consigli.” Matteo aveva continuato a battere il palmo sul cruscotto, ribadendo il ritmo.
“Tu sei nato scocciato, mi sa. Io non ero così. Ho preso tanti abbagli, ma non ero mai scocciata,” aveva detto Clementina, e poi aveva premuto l’acceleratore.

“Quali abbagli. Tu dici ‘ho preso tanti abbagli’ ma non sai dire quali. Lo dici tanto per… oooh, mamma!”
Lo scooter fu il primo ad attraversare l’incrocio e Clementina lo colpì in pieno.
La macchina frenò solo dopo l’impatto e le gomme troppo lisce slittarono sull’asfalto facendola ruotare sul proprio asse.
Matteo e Clementina immobili nell’abitacolo.
Lei stringeva ancora il volante. Ancora più forte. Appena prima dell’impatto: aveva visto la luce bianca del mondo solo su di lui, seduto dietro la vetrina del cinese. Aveva sentito un silenzio assoluto. Il suo cuore aveva smesso di rintoccare. Quasi trent’anni che Clementina non vedeva Leonardo.

Per qualche secondo rimase a guardare la ragazza, che si rialzò da terra, vacillò e si rimise a sedere.
Le persone in soccorso ostruivano la visuale del ristorante. Clementina ripartì sgommando via. Matteo se ne accorse decine di metri dopo, come se stesse dormendo e lo avessero svegliato con un secchio d’acqua: “Mamma che cazzo fai? Devi tornare indietro! Mamma che cazzo fai! Mamma—”.
Lo schiaffo di Clementina gli arrivò in piena faccia. Lo assestò con il dorso della mano destra mentre maneggiava il volante in una curva.
“Mi fai scendere, almeno?” disse Matteo, un’espressione di stupore e la voce di un’insicurezza nasale che sbucava dall’infanzia. “Tu sei pazza.”
Clementina continuava a guidare; oltre il parabrezza della Golf, i suoi occhi immobili puntavano un orizzonte che non c’era più da quando avevano costruito il bowling-supermercato nella Piccola Città. E chi se ne fregava dell’orizzonte se si poteva andare al supermercato. Aveva ancora il volantino delle offerte in borsa? Certo che sì, l’aveva portato apposta.
“Mamma… ma tu, veramente, vuoi ancora fare la spesa?”

Clementina entrò nello spiazzo e parcheggiò. Infilò le scarpe e scese dalla macchina con le buste vuote in mano. Si piazzò di fronte al muso della macchina, si chinò a osservare più da vicino, poi raddrizzò le gambe e fece un movimento con le spalle con cui sembrò scrollare via ogni preoccupazione. Matteo era ancora sul sedile del passeggero. Clementina gli mostrò pochi centimetri di una riga immaginaria tra indice e pollice. Poi con gli occhi ruvidi disse: “Diamine, vieni”.
“Mamma, ma dove cazzo vuoi andare?”
“Riesci a proferire una frase senza parolacce?” disse Clementina.
Matteo scese sbattendo la portiera e si allontanò a piedi, lasciandola sola.
“Dove vai, e secondo te chi me le porta le confezioni dell’acqua fino alla macchina?”

Clementina prese il pacco di biscotti dallo scaffale. Quindi infilò lo sguardo nella corsia: era una lunga fetta di pavimento divisa in quadratoni color paglia. Sugli scaffali, macchie di colore irreggimentate dalle quali emergevano etichette gialle con le offerte speciali. Emergevano come i suoni di pochi minuti prima: il tonfo metallico, la raschiata dello scooter sull’asfalto, la stropicciatura sulla vetrina della ragazza volata dalla parte opposta della strada, lo squittio della ragazza o di qualcuno che passava, un clacson lontano e il nooo preoccupato e accompagnato da bestemmia di un villano.
I biscotti le scivolarono in terra. Clementina si domandò se li avrebbe dovuti comprare lo stesso.

“Tutto bene?” chiese un anziano grinzoso, le mani sporche di terra, una camicia a quadri e gli occhi grandi.
“Li rimetto a posto. Nessuno può sapere se si sono frantumati dentro il pacco.”
L’anziano mosse le labbra come una mucca. Non si capiva se approvasse o meno.
“Io tutto bene, ma lei gli affari suoi, no?” continuò quindi Clementina.
L’anziano indicò il viso di Clementina con l’unghia dell’indice vistosamente ripiena di terriccio. Fece quasi per toccarla e disse: “Sangue”.
Clementina si toccò le labbra, le sentì gonfie. Sui polpastrelli un velo rossastro.

Questa storia parla del corpo umano che urtò contro la vetrina e di tutte le persone che furono raggiunte e avviluppate dalla tela di ragno che continuò a estendersi nel vetro colpito. E, naturalmente, la storia parla delle Furie.

Aveva colpito il volante con il mento. La cintura le aveva strizzato il seno mentre la testa tornava in posizione come un elastico. Sì, tutto bene.
“Vai nonno, grazie.”
“Dovere, signora. Se ha bisogno sono qui,” disse l’anziano, e le passò un fazzoletto di stoffa spiegazzato.
“Vai nonno, vai a lavarti.”
L’anziano rimase con il fazzoletto a mezz’aria. Lo ritirò rapidamente. Se lo mise in tasca e le labbra iniziarono a vibrargli evidenziando una peluria giallastra: “Sa che le dico? Ha fatto proprio bene, suo marito…”, e se ne andò con il suo cestino della spesa ancora vuoto, a parte una busta di arance.

Clementina afferrò di nuovo i biscotti, poi si fermò e iniziò involontariamente ad agitare il pacco. Che cosa facevi nella Piccola Città? Io ho poggiato leggermente il piede sul freno e la macchina ha rallentato. Alle spalle hanno iniziato a suonare. Ma io rimanevo ferma. La tua giacca avana di lino si spostava dentro il ristorante. Sono passati trent’anni, Leonardo. Il nome me lo ricordo. Le tue scarpe si sono fermate e hai guardato verso di me. Mi hai visto? Tutta la luce del mondo si è versata sul tuo viso. E il silenzio. Mi hai visto prima di afferrare un altro boccone con la forchetta, o forse erano bacchette? Ho poggiato il piede sull’acceleratore. Ma era diventato nuovamente rosso e ho colpito lo scooter. E sono andata via da là. E mio figlio non capiva mentre nello specchietto osservavo il ristorante e la tua giacca avana diventare piccoli piccoli.

Clementina si prese del tempo per indagare da lontano l’anziano in camicia a quadri. Tirava giù le cose dagli scaffali senza leggere le etichette. Lo seguì senza farsi vedere. Aveva già riempito il cestino a metà, würstel, zucchero bianco, sottilette, merendine, sostanzialmente un tumore ripartito in piccoli pezzi. Lo affiancò e con destrezza infilò il pacco di biscotti rotti nel suo cestino.
Fuori dal supermercato chiese al ragazzo africano di portarle in macchina le confezioni dell’acqua. Gli diede un euro di mancia per infilarle nel portabagagli.

Alla radio stavano intervistando un assessore che usava la locuzione lavoratrici sessuali per riferirsi alle prostitute che sostavano nello stradone che univa la Piccola Città alla Grande Città. La nuova moda delle parole sbiadite. Clementina era ferma al semaforo. Pensava alla ragazza, a Leonardo e alle unghie terrose del vecchio. E che l’assessore si faceva bello con le parole ma alle prostitute non fregava nulla di essere chiamate in un altro modo fino a quando non sarebbe cambiato il modo di usarle.
Comunque la pensiate, converrete con me che l’animo umano a volte diventa un prato pieno di erbacce e palloni di cuoio sgonfi.


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È nato a Roma nel 1980. Ha scritto e diretto il documentario I nomi del padre. Nel 2017 Feltrinelli ha pubblicato Teorema dell’incompletezza, romanzo vincitore del Premio Italo Calvino.

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