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Scelte radicali6 min read

Questo articolo è estratto da Dylarama, la nostra newsletter settimanale a cura di Mine Studio.
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Non so voi, ma io è dal primo giorno di lockdown che penso: questo è niente in confronto alla catastrofe climatica, non è neanche una prova generale. Magari esagero, lo spero tantissimo, anche se ne dubito. Ormai siamo praticamente abituati a leggere articoli che ogni mese ci dicono che il mese appena trascorso è stato il mese più caldo mai registrato e non sembra neanche più fare il minimo effetto lo studio di turno che mostra uno scenario sempre più inquietante. L’ultimo in ordine di tempo e quello pubblicato dal PNAS (Proceedings of the National Academy of Science, la rivista ufficiale dell’Accademia delle Scienze statunitense), che aggiunge giusto qualche dettaglio a un quadro che viene confermato ogni volta: nei prossimi cinquant’anni l’aumento delle temperature renderà intollerabili le condizioni di vita per oltre un miliardo di persone sul pianeta.

“Mese più caldo mai registrato”, “cinquant’anni”, “un miliardo di persone”, deve esserci sicuramente qualche termine tedesco che indica l’incapacità e il rifiuto del cervello umano di processare informazioni di portata così grande e di inserirle razionalmente nei propri pensieri quotidiani, ma se c’è, io non lo conosco, perdonate l’ignoranza. Eppure una piccolissima cosa positiva tra la manciatina di cose positive che questa esperienza assurda del lockdown ci ha insegnato, è proprio quella di sensibilizzarci tutti un po’ di più sulla questione ambientale e magari di renderci più inclini a prendere scelte radicali. D’altra parte, a quanto pare, c’è anche lo zampino di due faccende strettamente legate alla questione ambientale, nella diffusione del COVID-19.
La prima ha a che fare con il nostro rapporto con gli animali: un mini-documentario prodotto da Le Monde disponibile con i sottotitoli in italiano su Internazionale, spiega come la diffusione delle pandemie sia frequentemente collegata alle condizioni igieniche degli allevamenti di animali selvatici e alla maggiore possibilità che alcuni virus possano fare il salto di specie di cui abbiamo sentito parlare molto in questo periodo. Beh, sappiate che era facilmente prevedibile, anzi, era proprio stato previsto, per esempio nel saggio Spillover di David Quammen, pubblicato nel 2013. Ovviamente nelle scorse settimane se ne è parlato moltissimo, il saggio attualmente risulta introvabile, ma sono uscite molte interviste all’autore, tra cui questa su Il Tascabile, che vale davvero la pena leggere. Non si tratta però solo di animali selvatici, ma proprio in generale di quanto gli allevamenti intensivi siano diventati insostenibili per poter tenere a bada condizioni sanitarie minime. Come sappiamo gli allevamenti intensivi sono direttamente collegati alle emissioni di Co2 e si dà il caso che a loro volta le emissioni di Co2 siano collegate a una maggiore diffusione del COVID-19, secondo diverse opinioni e studi.

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Diversi studi confermano che il commercio di animali selvatici, gli allevamenti intensivi, la deforestazione, l'eccessivo sfruttamento delle risorse del pianeta, favoriscano la diffusione delle pandemie.

Il lockdown pare abbia fatto rallentare il tasso di diossido d’azoto nell’aria in tutto il mondo, sebbene non in maniera davvero consistente, ciò è bastato a salvare la vita a 11 milioni di persone, secondo questo studio. Eppure, anche in questo caso, ci sono aspetti negativi: primo, l’aumento esponenziale dell’uso della plastica dovuto al maggiore utilizzo di imballaggi, cibo d’asporto, prodotti in scatola e confezioni di plastica, inevitabilmente aumentati in queste settimane; secondo, il fatto che anche nel recente passato – per esempio a causa della crisi economica del 2008 – si siano leggermente e temporaneamente ridotte le emissioni, per poi aumentare ulteriormente con la ripresa economica.

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E quindi? E quindi come al solito ci sono gli ottimisti e i pessimisti in merito a ciò che potrebbe scaturire da tutto questo, le due visioni opposte sono riassunte molto bene in questo articolo uscito su Il Post.

Onestamente, io, non so perché, sono un po’ fiducioso. E quindi mi piace pensare che questa sia un’occasione per fare delle scelte radicali, di fronte a un evento che è a sua volta è radicale, del resto. Anzi, di fronte a un evento che ha cambiato un po’ i parametri di ciò che si può considerare radicale, un termine molto spesso confuso come sinonimo di “irreale” o “eccessivo”, come sembrava irreale e eccessiva l’ipotesi di starsene in casa per due mesi tutti i santi giorni, e invece.
Ci sono un sacco di cose che si potrebbero fare, anche piccole e individuali, come, banalmente, mangiare un po’ meno carne, anche poca poca di meno, o farsi una passeggiata o una pedalata in più ogni tanto, anziché prendere la macchina.
Però servirebbero anche scelte collettive e tutt’altro che piccole, prima su tutte quella di non commettere l’errore di fare finta di niente appena l’emergenza sarà finita, sarebbe uno spreco enorme. Era da un bel po’ che non ci capitava un’occasione per cambiare così profondamente questioni così grandi, come ripensare una città intera e il nostro rapporto con essa, per esempio. Se proprio vogliamo dirla tutta, molti studi dimostrano che l’industria delle energie rinnovabili e le politiche ambientali convengano anche economicamente: creerebbero molti nuovi posti di lavoro, risparmi per le aziende e utili a breve termine. Ma questo dovrebbe essere l’ultimo dei pensieri, è un po’ da scemi pensare ai vantaggi economici in confronto all’intera esistenza della nostra specie. Ma vabbè.

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