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Televisione e resilienza12 min read

Da un punto di vista televisivo, il 2020 è un anno cominciato in modo sorprendentemente positivo. L’inizio del nuovo decennio, con questa cifra tonda da film di fantascienza, è anche la prosecuzione di un’idea di intrattenimento che sempre più si conforma alle nuove tecnologie, allo streaming, alle varie piattaforme, ai formati da social, al renting; eppure, proprio all’alba di questo avvenire già in atto, il 2020 in Italia fa un passo inaspettato e ci catapulta nella baraonda mediatica di un evento come Sanremo 70. Non è certo una novità che il festival fagociti il dibattito pubblico per settimane, si tratta di un appuntamento fisso che fa parte della nostra cultura, la più nazionalpopolare. Ci sono due elementi però che rendono questa ultima edizione del festival della canzone italiana un caso unico, imprevedibile ed emblematico: il primo è che, proprio nel pieno della moltitudine dei contenuti, delle forme e dei mezzi, la kermesse condotta da Amadeus e dalle sue tanto discusse vallette ha ottenuto record di ascolti che non si registravano dai tempi in cui la televisione era il centro dell’intrattenimento casalingo, il migliore dal 2005, con una media fissa di 10 milioni di spettatori a serata; il secondo è che, ancora storditi dalla sbornia post-sanremese, quando Twitter brulicava di meme su Morgan e la sindrome del nido vuoto avanzava, è arrivato il Coronavirus. Il secondo mese del 2020 cambia le carte in tavola, rendendo quell’ormai storica e iconica settantesima edizione di Sanremo uno spartiacque tra il mondo prima e dopo l’era del COVID-19.

Nessuno sa cosa serva esattamente perché un prodotto audiovisivo abbia successo, ma si possono calcolare bene le dosi degli ingredienti per fare sì che questo abbia ottime possibilità di successo. Nel caso Sanremo 70, per esempio, si è puntato su una promozione molto precoce, basata anche sulle polemiche, e sulla certezza di una coppia di presentatori che prima ancora di essere colleghi sono amici, come nel caso di Amadeus e Fiorello. La costruzione dell’evento, gli artisti in gara, gli ospiti, tutto questo era calcolato e potenzialmente efficace, nessuno avrebbe previsto che Morgan avrebbe abbandonato il palco nel mezzo dell’esibizione dopo aver cambiato il testo della canzone, né che Bugo – il meno noto dei concorrenti, tra l’altro – sarebbe sparito. L’ingrediente che fa diventare una ricetta classica un nuovo enorme successo è, senza ombra di dubbio, «il bello della diretta»; ciò che la tv insegna nei suoi anni di predominanza mediatica è che tutto ciò che è errore è di conseguenza anche già cult, materiale per Blob, stacchetto di Striscia. Il Coronavirus nella sua accezione più astratta e al contempo pervasiva, con l’effetto congelante che ha avuto sulle nostre vite, è un enorme e disastroso errore, un imprevisto che nella narrazione dell’essere umano moderno ha una carica simbolica senza precedenti – c’è infatti chi lo cataloga come inizio di una nuova era post-9/11. Ciò che coglie alla sprovvista può rovinare tutto o può farci vedere le cose da un’altra prospettiva, costringerci ad arrangiarci, la famosa necessità che si tramuta in virtù; bisogna solo capire come.

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Prima di tutto, bisogna tenere in conto che sia che si tratti di contenuti di un canale YouTube, sia che si tratti di un quiz condotto da Paolo Bonolis, l’intrattenimento è forma. La forma non sono solo regole e paletti che limitano la libertà del contenuto ma anche una struttura salvavita per chi li crea, dal momento che questa genera ritmo, segni ed elementi di riconoscibilità fondamentali per gli spettatori. Quando la contingenza fa saltare gli appigli formali a cui un format si aggrappa, come è successo con l’emergenza sanitaria che ha bloccato il nostro Paese negli ultimi due mesi, è necessario creare delle alternative che si mostrino sufficientemente solide. Nel caso della tv durante la pandemia, sono interessanti due esempi che racchiudono un po’ l’essenza delle due grandi aziende che riempiono i palinsesti, la Rai e la Mediaset, entrambe trovatesi spalle a muro con una programmazione da mandare avanti, una moltitudine di spazi da riempire e una lista infinita di divieti. La Rai, per esempio, ha dovuto reinventarsi la messa in scena di un evento fondamentale della sua programmazione – senza tenere in conto della quantità enorme di talk show e trasmissioni simili che senza pubblico affannano a vista d’occhio – ossia il classico Concertone del primo maggio. Come si reinventa una situazione che per definizione si compone di pubblico in perenne contatto, vino in plastica e cori scanzonati? Si mette una presentatrice già rodata da due edizioni, Ambra Angiolini, al centro di una scenografia solitaria, anche un po’ spettrale, e ci si collega con gli artisti che si esibiscono a distanza, in piazze deserte, terrazze vuote, teatri chiusi. Ribaltare completamente il principio del concertone creandone una versione senza pubblico, ma privilegiare così anche una certa qualità sia audio che video, diciamo una morettiana “presenza dell’assenza”. Il risultato è soddisfacente, considerato che nel 2019 gli spettatori erano circa 1.2 milioni, mentre nella versione Covid sono 2.2 milioni. Per quanto riguarda Mediaset, invece, è interessante il caso di una trasmissione storica e trainante come Uomini e Donne che per sopperire alla mancanza di pubblico e contatti umani – cuore pulsante del format – mette in piedi una sorta di agenzia di incontri al buio in cui fa dialogare a distanza i protagonisti, con una versione metafisica di Maria De Filippi che appare solo in qualità di narratore onnisciente, un voiceover dall’aldilà. In questo caso, mentre la puntata pilota registra un buon dato (circa 3 milioni di telespettatori), la continuità della nuova formula non paga, con un trend discendente che ha portato la trasmissione a tornare al suo vecchio format non appena consentito dalla fase 2. L’abito, dunque, fa il monaco, almeno quando si parla di tv.

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La tv insegna che tutto ciò che è errore è di conseguenza anche già cult. Il Coronavirus nella sua accezione più astratta e al contempo pervasiva, con l’effetto congelante che ha avuto sulle nostre vite, è un enorme e disastroso errore, un imprevisto che nella narrazione dell’essere umano moderno ha una carica simbolica senza precedenti.

Ma la sfida di resistenza alla crisi della pandemia non si combatte solo a colpi di soluzioni strutturali, considerato tra l’altro il paradosso per cui proprio nel momento in cui sono tutti più incollati agli schermi vengono a mancare certi investimenti pubblicitari. C’è chi adatta il messaggio promozionale alla narrazione del caso, aggiungendo messaggi di speranza e immagini di reclusione – e c’è chi raccoglie tutti questi cambiamenti in un unico video per dimostrarne la poca originalità – e c’è chi esplora nuovi lidi, ingaggiando influencer solitamente avvezzi a collaborare con brand del tutto diversi in nuove partnership inaspettate: Chiara Ferragni che sponsorizza la mozzarella, chi se lo sarebbe mai immaginato? Ma i contenuti non possono fermarsi, la tv non è più quella del Carosello che a un certo punto stacca e chi si è visto si è visto. Anche in questo caso, i due approcci diversi di due aziende competitor si vedono lampanti: la Rai va col suo cavallo di battaglia, la grande fiction all’italiana; la Mediaset dà fondo alle sue scorte di America, con serie tv, film e grandi saghe, un palinsesto molto orientato sulla replica. Nel caso della fiction, oltre ai classici come Montalbano – che comune continua a battere tutti quando si parla di Auditel, la puntata del 4 maggio ha registrato 6 milioni di telespettatori e il 23% di share – la messa in onda, per esempio, di Doc – Nelle tue mani dà grandi soddisfazioni alla rete ammiraglia. Luca Argentero e il tema medico evidentemente è azzeccato, perché la serie registra nella sera della sua terza puntata oltre il 30% di share con 8 milioni di spettatori; la rassicurante messa in scena ovattata e materna di una fiction, in un momento di incertezza e timore, piace. Così come piace riguardare una saga che abbiamo visto e rivisto, di cui sappiamo tutto a memoria e che nonostante tutto, ci conforta: Harry Potter – che ogni anno viene mandato in onda su Italia 1 dopo Natale – vince la quarantena e registra per ogni episodio trasmesso mai meno di 3.6 spettatori; potremmo dire “una magia” e invece è solo una buona intuizione televisiva quella di creare una continuità e una routine in un momento in cui i riferimenti temporali sono annullati e tutti ci sentiamo in balia di una fluidità inquietante.

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La tv però non è l’unica cosa che abbiamo guardato in questo periodo di lockdown, ovviamente, considerato quanto abbiamo a disposizione a livello di piattaforme di streaming. Escludendo il fiume di dirette quotidiane che ci propongono i social, c’è tutto un universo di consumi online che ha abbondantemente rimpinguato le sue tasche. Proprio all’inizio della pandemia, quando ancora si cantava entusiasti dai balconi, la Disney arrivava in Italia con la sua piattaforma Disney+, che a inizio febbraio contava già 28 milioni di iscritti solo negli Stati Uniti; non è difficile da immaginare come abbia potuto giocare a suo favore la chiusura delle scuole per i mesi successivi – sorpresa: molto bene, visto che gli utenti sono diventati 50 milioni ad aprile. Netflix invece, che già di suo procedeva a gonfie vele, si è ritrovato con una crescita esponenziale sia di iscritti che di valore sul mercato, una conseguenza piuttosto intuitiva dell’obbligo di rimanere chiusi in casa a non fare nulla, o quasi. Ma la questione streaming, oltre all’aumento di iscritti in piattaforme che già esistevano, mette di fronte anche ad altre evenienze, come per esempio quelle cinematografiche o teatrali: le sale sono chiuse, perché non distribuire direttamente online il film che sarebbe dovuto uscire in questo periodo? Lo hanno fatto i Beastie Boys con il documentario diretto da Spike Jonze Beastie Boys Story, lo faranno alcuni registi come i fratelli D’Innocenzo e sperimentano questa formula di distribuzione direttissima del prodotto anche i comici con i loro spettacoli – Louis C.K. ha diffuso così il suo ultimo special, ma anche in Italia abbiamo qualche esempio recente. Insomma, nessuno può dirci se Sanremo 71 – anche questo condotto da Amadeus e Fiorello – sarà tanto riuscito quanto il suo predecessore, sebbene gli ingredienti saranno gli stessi; nessuno può dire se una forma televisiva rivisitata può dare di più della sua originale, né se trasmettere Il Signore degli Anelli per la decima volta porterà in effetti buoni risultati. Trovarsi alle strette però stimola a sperimentare delle alternative, e questo vale per qualsiasi campo, persino quello statico e spesso obsoleto della televisione che, per una questione enorme e purtroppo anche insormontabile come un’emergenza sanitaria globale, si è trovata a dialogare molto più con i mezzi di internet che con i suoi classici strumenti. Non usciremo migliori dalla pandemia, non saremo più buoni né più intelligenti; piuttosto, abbiamo avuto un’occasione per rivedere e ripensare alcune cose che davamo per scontate, ci siamo accorti di quante cose che consideravamo essenziali, in effetti, non lo sono. Magari ora le famose parole di Mies Van der Rohe hanno più senso, less is more, anche in quei luoghi dove non lo credevamo possibile.

di

Laureata in anglistica, giornalista pubblicista e autrice, ha collaborato e collabora con diverse riviste online come The Vision, Link - idee per la tv, VICE Italia, Prismo, Kobo, The Towner, Dude Mag); fa l’analista a Tv Talk su Rai 3.

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