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Come parliamo su internet14 min read

Come parliamo su internet

Una tassonomia delle mutazioni della nostra lingua nel linguaggio globale online.

di Clara Miranda Scherffig

A Milano, i millennial più matusa come me si ricorderanno de “il deboscio”, che nasceva come aggregatore satirico di luoghi comuni della cultura borghese meneghina nonché delle cerchie yuppie-pubblicitarie tipicamente associate alla città. E c’era sempre il deboscio, dietro alla traccia electro “Milan is burning”, a smascherare i cliché sociali di una certa demografica cittadina, con frasi come “guardami guardami sto appoggiata al muro” e “Fellini, Pasolini, Rossellini, Bolognini / andiamo ai Magazzini”, poi entrate nello slang di una generazione. Certo, era il gergo limitato e ristretto della cosiddetta “circonvalla interna” ora Area C, ma pur sempre un gergo. A quale cortocircuito assisteremmo dunque, se un catanese, metti, o una valdostana, cominciassero improvvisamente a parlare come i raga della Cerchia dei Bastioni?

Questo preambolo mi serve per inquadrare due fenomeni che osservo sui social media e generalmente su internet da anni e che chiamo indifferentemente “mala tradux” e “internetaliano”. Entrambi descrivono la deformazione dell’italiano nell’adattarsi al gergo globale dell’online, in cui la lingua decisiva e dominante è di fatto l’inglese.

“Mala tradux” è un concetto più ampio del semplice “internetaliano” e finisce per includerlo: illustra gli strafalcioni semantici e linguistici compiuti da chi trasla impropriamente espressioni inglesi nella propria lingua o favoreggia un termine straniero rispetto a quello locale, finendo per alterarlo.

Con “internetaliano” intendo invece uno stadio successivo, in cui l’elemento linguistico alieno o non standard viene normalizzato, vuoi perché divenuto di largo uso comune (ad esempio compare nei quotidiani, in televisione ecc.), vuoi perché sono proprio i vari marchi o i produttori di applicazioni e interfacce digitali che lo propongono, imponendolo in veste più “autorevole” o comunque come unica opzione espressiva.

Della stessa autrice:

L’origine di questi fenomeni, che un linguista professionista descriverebbe con categorie più ortodosse di quelle che propongo, è varia ma ovvia. Non c’è solo l’internazionalizzazione del mercato e il fatto che le generazioni più giovani consumino prodotti di varia natura direttamente “alla fonte” e volentieri senza filtri di traduzione. Le nostre competenze linguistiche hanno fatto salti in avanti da quando in molti guardiamo film o serie televisive in lingua originale — un fenomeno che però non ha eradicato il “problema” dell’eccessiva mole di contenuti da doppiare o sottotitolare.

C’è poi un altro fattore: più e più persone completano la propria istruzione all’estero, finendo a volte anche per esercitarvi una professione. Ci sono, in altre parole, sempre più italiani che diventano adulti parlando una seconda lingua. Ciò è ancora più spiccato quando la carriera in questione si sviluppa in campi doppiamente legati all’inglese, come l’informatica o la pubblicità, proprio perché queste discipline o branchie industriali sono nate come cose nella cultura anglosassone.

Sui social media i meme scavalcano ogni giorno i confini linguistici locali, come del resto fanno le aziende multinazionali, utilizzando anglicismi diventati frequenti in ambito lavorativo

Nella frase precedente ho commesso errore di “mala tradux” che esemplifica bene la sua natura: dire che qualcosa si è consolidato “come cosa” — tipo che il marketing è diventata pratica diffusa e riconosciuta come tale negli anni Cinquanta col boom economico e la pubblicità diretta in televisione — significa presumere tutta una costellazione semantica che ruota attorno all’uso stesso della parola “cosa” nella cultura anglosassone, senza che però questa abbia un corrispettivo immediato nella cultura italiana. In inglese è un vocabolo generico con una forte qualità connettiva: “The thing is…” è il nostro “il fatto è che…”, mentre “Here’s the thing” viene usato come una ricapitolazione implicita con introduzione di un nuovo concetto, il nostro “insomma”. Ma se qualcosa diventa “a thing”, ricevendo dunque l’articolo indeterminativo al posto del determinativo, significa che assume una rilevanza generale: si trasforma da dettaglio o elemento passeggero a fenomeno culturale contestualizzato e catalogato come tale. 

Al di là di questa digressione meta-linguistica, un luogo che raccoglie molti esempi in chiave ironica e autocritica è Agenzia Stanca, che bersaglia il linguaggio delle agenzie creative e in generale di chi lavora in multinazionali. Responsabili di certe castronerie (un “errore marchiano, discorso stupido e sciocco”, che parola bella e appropriata, no?) non sono solo l’esterofilia provinciale che ci affligge da sempre o i dirigenti stranieri che infliggono, senza adattarlo, un gergo aziendale anglofono —il “corporate speak”. Sono anche i cervelli che ritornano in patria e continuano a impiegare il linguaggio che hanno lavorando all’estero. Quindi vai con una trafila di calchi o ibridazioni come: “Non stiamo salvando vite” (we’re not saving lives nel senso che non è una questione di vita o di morte, no?), “Facciamoci una pensata” (let’s give it a thought, ok,  ma perché invece non ci pensiamo un attimo?),  “È un po’ tricky” (boh, magari è solo spinoso?), “Ci sei per una chiacchiera veloce” (no, semmai ho un momento per parlarne). C’è poi un’esemplare trinità di mala tradux — “Ingaggiante, Sfidante, Impattante” — che rivela in un battibaleno l’ignoranza semantica e grammaticale dell’aspirante poliglotta. “Ingaggiante” desidera tradurre “engaging” (accattivante, appassionante) ma è un participio aggettivale di un verbo che in italiano, pur avendo radici etimologiche comuni, non c’entra (“ingaggiare” cioè assumere, arruolare). “Sfidante” è invece un participio nominale che oltre a ricordare Maria De Filippi (“facciamo entrare gli sfidanti…”) prende spunto dal significato letterale del sostantivo “challenge” benché voglia tradurne l’aggettivo, “challenging”, il quale, soprattutto in contesto d’industria creativa, perde un po’ della sua sfumatura agonistica (altrimenti respingerebbe il cliente o il pubblico) per acquistare quella che in Italia è invece una nuance più erotica: “provocante, stimolante”. Su “impattante” invece si è cimentata pure la Crusca : basti sapere che il suo uso risale alla bomba di Hiroshima e non ai geni di Publitalia ’80.

Discorso a parte meritano neologismi in fieri come “Rischeduliamo” oppure “Mi mandi il file editato”, e quelli di recupero come “Dico solo questa e poi mi taccio”, partorito direttamente dalla pandemia Zoom. In inglese, il verbo “to mute” necessita per forza di un complemento oggetto, ergo è solo transitivo e diventa perciò riflessivo quando il verbo si riferisce al soggetto parlante. Peraltro, “mi taccio” a me suona sempre come voce del verbo tacciare, che ha un significato del tutto diverso di rimanere in silenzio e cioè accusare. In italiano la transitività o meno del verbo tacére è stata esaminata dall’accademia della Crusca, che, pur attestando entrambe le forme, ha notato una netta diminuzione della variante riflessiva nella lingua contemporanea, la quale sembra sopravvivere quasi solo nella prima persona singolare dell’indicativo presente. Un arcaismo che ricompare travestito da neologismo, dunque?

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Come tutti, ogni tanto entro in un “rabbit hole” di “doomscrolling” e vengo risucchiata senza opporre molta resistenza nell’infinito flusso di immagini di Instagram, con crescente senso di nausea e angoscia. Lì sguazzo nella manna delle “mala tradux” che spuntano un po’ ovunque. Inoltre mi avvicino alla sponda dell’internetaliano, dove le acque tra inglesismi e varietà dialettali si intorbidiscono. Un esempio ovvio è l’annuncio della pubblicazione di una novità — di un link, articolo, disco, video—che viene promosso come “fuori”. No. Cioè, tecnicamente sì, vogliamo dire che qualcosa è fuori, nel mondo, ma se l’inglese implicita l’azione verbale nella preposizione “out”, in italiano bisogna dichiarare il verbo coniugandolo, “è uscito/a”—se sei fuori sei solo matt*. Un’altra delle locuzioni che mi infervorano è il gerundio in costruzione autonoma, ovvero non in un rapporto di subordinazione con la frase principale. In italiano esiste solo in rarissimi casi, tipo in musica (crescendo) o in “licenze” di traduzione divenute classiche (Cantando sotto la pioggia). In inglese invece, come dimostra appunto il titolo del film Singing in the rain, il gerundio si sostantivizza e finisce per “diventare” l’azione invece di subordinare le sfumature causali, temporali ecc. come succede in italiano. Da post trovati in giro su Instagram cito a caso frasi proposte come finite come “scivolando verso il mio colore di capelli naturale”, “svegliandosi con una certa grinta”, “andando a fare la spesa”, in cui forse si suggerisce una sintassi del futuro: intese come un tutt’uno con l’immagine che accompagnano, queste formulazioni tracciano un periodo linguistico in cui la frase principale è la foto, mentre la subordinata è la didascalia scritta. Sarà forse l’immagine, soprattutto se in movimento, a scatenare nuove coniugazioni: è quello che riporta Simone Barco da Tik Tok, dove nasce la voce del verbo “cringiare” mentre il verbo “duettare”, che in italiano è solo intransitivo, assume improvvisamente un complemento oggetto, “duetta questo video”, o diventa riflessivo, “duettami”.

Senza fare troppo fanta-linguistica, un capitolo a parte sarebbe da dedicare alle traduzioni di meme, o forme colloquiali dell’inglese americano. Proprio perché si tratta di locuzioni semplici, spesso la traduzione letterale è sufficiente. Nonostante la correttezza grammaticale, però, la traslazione in italiano mi sembra sempre calzare un po’ scomoda, come una maglietta sudata da qualcun altro: “proprio nessuno: x io: y” (“literally no one: x me: y”), “io che..” (“me doing/being…”), “quest* qui” (“this one/this guy”), “dimmi che sei x senza dirmi che sei x” (i.e.“tell me you are x without telling me you are x”), “svegliarsi così” (“woke up like this”).

Ci sono poi dei manierismi da social che nascono in seno all’italiano e che perciò la mia tassonomia improvvisata non classifica più come “mala tradux” ma come frutto di un’evoluzione linguistica interna. Mike Bongiorno esiste ancora oggi, solo che è frammentato e va in onda su molteplici canali: è come parla, anzi come scrive, l’Italia su internet. Ecco fenomeni come la pluralizzazione del sostantivo o il verbo all’infinito, che di consueto suggeriscono una moltitudine generica, una lista o un atto ricorrente, usati però in concomitanza con immagini che descrivono eventi speciali, azioni puntali o soggetti singoli (“Sposarsi”, “Traslochi”, “Figli”, “Venezie”). Un manierismo già vecchiotto (risale agli status di Facebook) ma non per questo meno irritante, sono le introduzioni ostentatamente modeste per dichiarare fatti importanti o sottolineare ironicamente abbondanze: “e niente…”, “oggi è successa una cosa/questo…”, “di questo/quello ne abbiamo?”. Ci sono poi varietà regionali che prendono piede a livello nazionale, come i troncamenti alla lombarda (che “sbatti”, il “fidanza”, la mia cosa “prefe”), le suffissazioni in -ate (quelle belle “ottobrate” romane) o in -one, più settentrionale (“ciaone”, “piacerone”).

Ogni giorno ci imbattiamo in strafalcioni semantici e linguistici compiuti da chi trasla impropriamente espressioni inglesi o favoreggia un termine straniero rispetto a quello locale, finendo per alterarlo

Cosa succede poi quando la smania di stare al passo coi tempi incontra lo Stato? Come direbbero a Boris, succede la locura. L’anno scorso, quando è stata lanciata l’applicazione dei servizi della pubblica amministrazione ovverosia lo SPID, sembrava che i programmatori e chi ne supervisionava il lavoro avessero preso alla lettera il concetto di “levate, boomer”. Il gruppo Incipit dell’accademia della Crusca, che osserva i forestierismi, ha messo in luce l’assurdità del linguaggio dell’applicazione, che solo in una breve notifica è riuscita a inserire le parole “onboarding, brand, renaming, form”. Ancora adesso, sul sito dell’applicazione, i cittadini vengono invitati ad “andare alla dashboard” o a “guardare la roadmap di io”, cioè presumibilmente la schermata iniziale o la mappa concettuale. I giornalisti possono scaricare un “fact-sheet” mentre la sezione rivolta agli sviluppatori, essendo l’applicazione “open-source”, a-ehm, è il vero reame della supercazzola 2.0. Un altro caso intercettato dalla Crusca — che sarà sì pedante ma in effetti salva vite (sic)—è quello delle Poste Italiane, che da ormai anni classificano le loro diverse tariffe con termini “inglesi”. Come però nota anche il linguista Michele Razzetti, le etichette “Poste delivery, Delivery Express, Delivery standard, Delivery Globe” oltre a rinominare servizi che non si sono evoluti in termine di prestazione (erano i vecchi “consegna o pacco ordinario”, “pacco celere”, “spedizione nazionale o internazionale”), lo fa senza rispettare la struttura sintagmatica dell’inglese che vuole l’aggettivo prima del sostantivo, scimmiottando così la costruzione italiana. Anche Trenitalia, che pure fu responsabile di una bella invenzione con “Freccia”, regala pacchetti come “Me & You”, “Young” e “Senior”, quasi non volesse far sentire escluso chi non rientra nei gruppi a cui si rivolge obliquamente.

Visti a posteriori, molti degli esempi citati rientrano in cliché formali che, sebbene nella loro prevedibilità appiattiscono un po’ la nostra parlata, non uccidono nessuno. Altri, invece, rivelano una creatività espressiva che ben traduce la lunga e variegata inventiva linguistica del nostro paese. Soprattutto le commistioni dialettali o bilingui rivelano un quadro dinamico e ricettivo del mondo circostante. Quelli che invece sì, ci annientano come popolo capace di spiegarsi con una lingua moderna e accessibile, sono i casi di castronerie ufficializzate, che non hanno una genesi popolare e spontanea bensì vengono imposte al cittadino, rivelando peraltro la stessa pigrizia o ignoranza che intendevano neutralizzare. Insomma, che dire? Forse ai responsabili sarebbe consigliabile trascorrere un po’ di tempo all’estero, così da esperire sulla propria pelle come viene anche là storpiata la lingua “del bel paese là dove ‘l sì suona”.


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È specializzata in marketing per il cinema art-house e scrive di cultura visiva, media e letteratura tra gli altri per IL del Sole 24 Ore, il Tascabile, Elle Decor, Cinema Scope, Reverse Shot.

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