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La solitudine della parasocialità6 min read

La solitudine della parasocialità

Parliamo di parasocialità, intimità illusoria, scalabilità affettiva, economia della confidenza.

di Siamomine

Questo articolo è estratto da Dylarama, la newsletter settimanale a cura di Siamomine su tecnologia, scienza, comunicazione, lavoro creativo e culturale.
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La parasocialità e la nascita di relazioni unilaterali online

Pochi giorni fa, il Journal of Social and Personal Relationships ha pubblicato una serie di studi su come sono cambiate le relazioni durante la pandemia. Tra risultati più o meno prevedibili (come il fatto che la maggior parte delle coppie giovani non conviventi ha finito per lasciarsi) e altri inaspettati (se la sono cavata meglio le coppie abituate a litigare rispetto a quelle che tendono a evitarlo), è emerso un fatto molto curioso: negli ultimi mesi, in mancanza di socialità, abbiamo iniziato a percepire personaggi famosi come celebrities, creator e autori di podcast come veri e propri amici.

Ne parla bene questo approfondimento pubblicato su Real Life Magazine, che ripercorre la storia dell’amicizia, in quanto sentimento di appartenenza e ricerca di affinità, dal declino della famiglia rurale alla nascita dell’era digitale. Come osserva l’autore, il rapporto tra tecnologia e le crescenti crisi di appartenenza generate dal progresso non è affatto nuovo. Gli scambi epistolari nel Rinascimento, i friendly clubs nell’era industriale, la radio e i programmi televisivi nella prima metà del Novecento: la ricerca di un legame con persone al di fuori del proprio nucleo familiare ha caratterizzato la socialità umana per generazioni, finché la nascita delle telecomunicazioni non ha trasformato questo rapporto in una relazione unilaterale tra pubblico e personalità affermate. È quella che chiamiamo parasocialità.

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Di che si tratta? Come spiega questo articolo su Huffington Post, la parasocialità viene teorizzata per la prima volta nel 1956, quando gli scienziati sociali Donald Horton and R. Richard Wohl utilizzano il termine per spiegare la sempre più diffusa illusione, da parte dei telespettatori, di intrattenere una relazione intima con i performer, in particolare con i conduttori dei programmi abituati a rivolgersi direttamente alla telecamera per comunicare con il pubblico.

Molto più di semplice ammirazione, una relazione parasociale ci induce quindi a provare un legame profondo con il personaggio che apprezziamo, nella convinzione (ovviamente illusoria) che se solo avessimo l’occasione di trascorrere del tempo con lui o lei, sicuramente diventeremmo amici intimi. Neanche a dirlo, l’equazione internet + smartphone + pandemia ha trasformato la parasocialità in un’esperienza ancora più estrema.

Come spiega Brendan Mackie su Real Life Magazine, l’intimità performata sulle piattaforme social contemporanee (da Instagram ai portali per sostenere il lavoro di celebrità e creator) entra in tensione con il principio di scalabilità che alimenta il mercato tecnologico: «Parasociality promises to satisfy a need that it can only make more acute. Fans often want their one-sided relationship to be reciprocal, for the content creator to recognize them as an individual who, like a friend, isn’t just useful but is loved for themselves. But because of the scale of internet culture, to the creator, fans can never be in aggregate more than an anonymous mass of fluctuating metrics».

Insomma, le relazioni economiche, come quelle intrattenute su Patreon, vengono invece presentate come intime, mentre il supporto, elemento prezioso di una relazione d’amicizia, viene tradotto nella vendita di contenuti personali per alimentare l’illusione di un legame confidenziale con la personalità di turno.

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Il risultato è che, se prima la parasocialità veniva principalmente associata ai gruppi sociali più propensi a trascorrere molto tempo in casa con la televisione o la radio accese (giovani, donne, anziani), oggi è un problema di tutti: dopo mesi di doloroso lockdown e la nascita di nuove ansie sociali (come la FOGO) internet continua a rappresentare un illusorio safe space dove convincerci di essere meno soli. Citando una frase molto intelligente di questo articolo su Refinery29«No matter how often we repeat the message that social media is ‘not real’ and is ‘only the highlights’ of someone’s life, we can’t help but attach ourselves to the version of that person we see online».

La realtà è che la pandemia ha stravolto completamente il concetto di iperconnessione, dimostrando quanto il nostro rapporto con gli spazi di socialità online sia molto più complesso e problematico di quello che pensiamo. Ma mentre sperare in un futuro offline è ancora più utopistico di ambire all’amicizia intima di Bo Burnham, imparare a riconoscere le molteplici espressioni dell’economia dell’attenzione, potrebbe aiutarci non dico a costruire un Internet migliore, ma almeno ad assumere uno sguardo più lucido e disincantato sulle effettive capacità della tecnologia di renderci la vita più lieve.

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Nata a Roma nel 1989, ma con il cuore tra le montagne. Lavora come content editor freelance, gestisce un archivio fotografico nostalgico su Instagram e collabora con diverse riviste online, tra cui Cosmopolitan e Vanity Fair.

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