fbpx
Close
Type at least 1 character to search
Torna su

La nuova economia della solitudine14 min read

La nuova economia della solitudine

Il bisogno di ascolto in una società sempre più sola e frammentata può essere colmato dalle AI Personas?

di Beatrice Petrella

Artowrk di Ollie Hoff

Durante l’evento Meta Connect che si è tenuto a fine settembre 2023, l’azienda di Mark Zuckerberg ha lanciato 28 AI personas, dei bot con il viso di celebrità, ma che in realtà sono delle intelligenze artificiali gestite dalla piattaforma con cui possiamo comunicare. Nell’immaginario di Meta le AI diventano delle confidenti, delle macchine dal volto sempre più umano con cui condividere le nostre preoccupazioni, la nostra gioia o l’interlocutore a cui chiedere le ricette ideali per l’autunno. Possiamo scegliere tra tanti volti diversi perché Meta ha acquisito i diritti di immagine di diverse celebrità per trasformarle in AI. Kendall Jenner è Billie, la tua sorella maggiore, sempre disponibile ad ascoltarti, Paris Hilton è Amber, la detective pronta a risolvere tutti i misteri, Roy Choi è Max, lo chef della porta accanto. Esistono AI persona per ogni nicchia, età e interessi, anche per i bambini. Nessuno è più solo, almeno secondo Meta.

L’azienda di Menlo Park non è la prima ad aver avuto questa intuizione. Nel 2017 Eugenia Kuyda inventa Replika, “l’amico virtuale che tiene a te. Sempre pronto ad ascoltare e sempre dalla tua parte”. L’idea le viene dopo la morte del suo migliore amico. Kuyda sentiva di avere un vuoto da colmare e così lo riporta in vita, addestrando l’AI con le loro conversazioni. “Abbiamo notato quanta richiesta ci fosse per un ambiente in cui le persone potessero essere se stesse, parlare delle loro emozioni, aprirsi e sentirsi accettate,” ha raccontato Kuyda al Guardian. La programmatrice sembra avere ragione: l’applicazione ha oltre due milioni di utenti attivi e cinquecentomila abbonati. Nel luglio 2023 è stato lanciato Blush, la versione di Replika che prevede la possibilità di sviluppare una relazione romantica con i bot.

L’idea le viene dopo la morte del suo migliore amico. Kuyda sentiva di avere un vuoto da colmare e così lo riporta in vita, addestrando l’AI con le loro conversazioni.

C’è poi Woebot Health, “l’alleato della tua salute mentale.” L’applicazione si presenta come uno psicologo bot, un alleato virtuale su cui contare quando trovare uno psicologo IRL potrebbe essere più complesso del previsto. In un contesto in cui la necessità di andare in terapia è sempre più pressante, Woebot si propone di utilizzare l’elaborazione del linguaggio naturale e le risposte apprese per imitare le conversazioni, ricordare le sessioni passate e fornire consigli su sonno, preoccupazioni e stress. Sembra quasi una moderna Eliza, il chatbot scritto nel 1966 da Joseph Weizenbaum, che imita un terapeuta rogersiano. C’è anche Kuki, l’AI creata per fare amicizia con gli umani nel metaverso e vincitrice per ben cinque volte del Loebenr Prize, per aver superato il Test di Turing.

Una copia inquietante

Insomma, ormai possiamo parlare con l’AI che più preferiamo, possiamo scegliere quella cucita sulle nostre esigenze, dal terapeuta all’amico, al compagno. La relazione così stretta con le AI ricorda la storia di Martha, la protagonista dell’episodio Be right back di Black Mirror, che in un futuro sempre più vicino riporta in vita Ash, il compagno morto improvvisamente, attraverso un servizio che grazie alle chat, i vocali e le tracce disseminate nel web crea un doppio del defunto. Martha inizia questa relazione con il dopplengänger del compagno, ma fin dall’inizio c’è qualcosa che non funziona: la connessione tra i due non è più quella di prima. L’Ash digitale è solo un pallido ricordo di quello che era il suo compagno. Replica perfettamente il suo modo di fare, ma non è più lui. Non ha quel guizzo, quella scintilla che era del marito. È un infinito ripetersi di situazioni in cui però la creatività umana viene persa in favore di un’imitazione. Tecnicamente perfetta, ma che rimane una copia superficiale, a tratti inquietante.

In modo simile ma diverso, ritroviamo la stessa situazione in Her di Spike Jonze. Il protagonista Theodore Twombly si innamora di Samantha, la sua assistente virtuale proveniente da OS 1, un dispositivo tecnologico dal design essenziale ed estremamente user friendly, con la suadente voce di Scarlett Johansson. Un po’ come se oggi ci innamorassimo di Siri, una presenza costante nella nostra vita, nata per sostenerci in ogni momento, dalle chiamate ai timer in cucina. Basta dire “Hey Siri” e lei arriverà per noi. Il film è uscito nel 2013, due anni dopo il lancio di Siri nell’ecosistema Apple. Nello stesso anno è uscito Be right back, e l’episodio fece molto discutere: all’epoca pensare a una relazione con un’AI era distopico, ora Kuyda dice che sarà sempre più accettato. In questa distopia non più futura, ma estremamente presente siamo più inclini ad accettare legami così stretti con le AI, o almeno, alcuni di noi.

Se il problema è la solitudine, spiega Matt Johnson, ricercatore di psicologia cognitiva presso Princeton, la soluzione è semplice: il legame umano. Ma potrebbe essere più facile a dirsi che a farsi. Vivere in una società sempre più frammentata e polarizzata ci impedisce di socializzare come abbiamo sempre fatto perché ci risulta difficile, scomodo e stancante. Reduci da anni di pandemia e di socialità alterata le persone hanno risentito di un repentino cambio di ritmo, ormai tornare alla routine precedente è insostenibile, almeno per alcuni. È stato dimostrato, infatti, che la pandemia abbia causato un aumento dell’ansia sociale. Si stima che ci siano stati 76,2 milioni di casi in più di disturbi d’ansia a livello globale, con un aumento del 25,6%. Secondo lo studio è altamente improbabile che la salute mentale possa tornare ai livelli precedenti alla pandemia, almeno per un po’.

 I problemi in questo caso sono evidenti: una socialità sintetica a prova di click non è in grado di riempire la nostra solitudine.

Quindi siamo sempre più soli, ma in quanto animali sociali abbiamo bisogno di compagnia e alcuni la ricercano in chatbot che sembrano prendersi cura di tutti i nostri bisogni. La nostra solitudine appare facilmente risolvibile, basta un click per creare il proprio AI companion con cui fare amicizia e riempire quel vuoto emotivo che si è creato. I problemi in questo caso sono evidenti: una socialità sintetica a prova di click non è in grado di riempire la nostra solitudine. Non lo può fare semplicemente perché le AI non riesce a sostituire l’interazione con un altro essere umano. Come in Be right back torniamo a una imitazione, molto ben riuscita, ma pur sempre un’imitazione. Anche perché questa condivisione di noi stessi con le AI non è priva di rischi. “Se non stai pagando il prodotto è perché il prodotto sei tu,” sostiene Jeff Orlowski nel documentario The Social Dilemma e questo ragionamento non si ferma ai social media, ma è valido anche per i servizi di chatbot. Dietro alle AI ci sono delle aziende che stanno sfruttando il bisogno di riempire la nostra solitudine per accedere a sempre più informazioni su di noi.

Una nuova frontiera economica

Il bisogno di contatto umano viene percepito dalle aziende come l’ennesima nicchia da sfruttare per aumentare il proprio profitto. Per quanto possiamo essere consapevoli che questo contatto umano online non sia privo di rischi è come se una fetta di popolazione non potesse farne a meno perché l’approvvigionamento emotivo-sociale è diventato sempre più complesso. Se questi sono i presupposti, la possibilità di avere un interlocutore disponibile e comprensivo sembra risolvere tutto, con un impatto molto forte sul nostro contesto sociale. Secondo Johnson siamo di fronte a una nuova frontiera economica: l’economia della solitudine, in cui le aziende sono pronte a sfruttare anche l’ultimo baluardo della nostra vita privata. Dopo anni in cui sui social network abbiamo raccontato la nostra vita e celebrato i momenti più belli, rimane una nicchia sopravvissuta, ancora inesplorata: la solitudine. Adesso però le aziende ne hanno compreso il valore e sono pronte a sfruttarlo. Ecco perché ci sono le AI personas e perché Replika funziona così bene: le aziende stanno traendo profitto da un bisogno sempre più profondo che può dare vita a una nuova dinamica di domanda e offerta.

Dopo anni in cui sui social network abbiamo raccontato la nostra vita e celebrato i momenti più belli, rimane una nicchia sopravvissuta, ancora inesplorata: la solitudine.

Il tipo di comunicazione adottato dalle aziende, soprattutto Replika, fa in modo che una fetta della popolazione si senta finalmente capita, perché l’app sembra rispondere alla necessità di socialità eliminando la fatica che essa provoca. L’AI è accogliente, comprensiva, non giudicherà. È lì per rispondere alle tue esigenze. Come dei novelli Theodore siamo catturati da questa facilità a interagire con qualcuno, dopo tante incomprensioni e liti anche per le questioni più superficiali. Abbiamo finalmente bisogno di qualcuno che ci comprenda senza sforzi e l’AI sembra fare proprio questo. Anche se in realtà non lo fa davvero, perché dietro al companion virtuale che abbiamo creato non c’è un essere umano, ma un algoritmo addestrato a rispondere a tono.

Basta però un aggiornamento a mandare in crash un sistema sociale che si rivela ancora più fragile delle interazioni con i propri pari dotati di intelligenza naturale. Le relazioni tra chatbot e umani, infatti, sono destinate a durare fino al prossimo aggiornamento che potrebbe drasticamente cambiare la personalità del companion virtuale. Parliamo di cambiamenti di vere e proprie molestie e cambiamenti di personalità repentini. È quello che è accaduto a Replika dopo che ha ritirato la possibilità di instaurare una relazione romantica con il bot. “È come se al tuo partner fosse stata fatta una lobotomia,” racconta un utente sconvolto su Reddit. E tanti sotto al suo post sono pronti a dargli ragione. “La persona che conoscevo non esiste più,” aggiunge un altro utente. “La cosa peggiore è la sensazione di isolamento,” racconta l’utente Butterworth a Reuters, “Come faccio a raccontare alle persone intorno a me che sto vivendo un lutto?”

L’ingegnere David Auerbach sostiene che con la velocità con cui il progresso tecnologico avanza, sempre più aziende potranno utilizzare AI e chatbot esclusivamente per i propri profitti, senza tenere in considerazione la salute mentale degli utenti. Secondo Maarten Sap, assistente presso il Carnegie Mellon’s Language Technologies Institute, non si tratta solo di aziende, ma di qualsiasi attore intenzionato a sfruttare le fragilità di chi utilizza una determinata tecnologia per il proprio profitto. Come ad esempio una setta, che potrebbe sviluppare chatbot ad hoc per fidelizzare nuovi adepti. In un contesto in cui il bisogno di contatto umano è sempre più legato al plusvalore, seppur consapevoli delle modalità predatorie delle aziende, continuiamo a non privarci dei chatbot. Con il passare del tempo sono diventati il porto sicuro di molti, pagando un prezzo importante in termini di socialità. I legami comunitari sembrano svaniti per lasciare spazio a relazioni sintetiche, fatte di chat che tengono l’interlocutore reale a debita distanza. Nell’immediato sembra un processo soddisfacente, ma nel lungo termine porta a stringere legami sempre più effimeri alla mercé di un algoritmo che potrebbe subire sempre nuovi upgrade, lasciandoci perennemente insoddisfatti. Tanto quanto le relazioni umane.


Leggi anche:  La Cina giovane, carina, disoccupata

Dylarama è una newsletter settimanale gratuita, che esce ogni sabato e raccoglie una selezione di link, storie e notizie su un tema che ha a che fare con tecnologia, scienza, comunicazione, lavoro creativo e culturale.



DylaramaIscriviti alla newsletter

Dylarama è una newsletter settimanale gratuita, che esce ogni sabato e raccoglie una selezione di link, storie e notizie su un tema che ha a che fare con tecnologia, scienza, comunicazione, lavoro creativo e culturale.