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Ironia e critica del Sigma male20 min read

Ironia e critica del Sigma male

Un nuovo modello maschile e i meme con cui gli uomini dissimulano la loro immedesimazione e tentano la sovversione

di Pasquale Noschese

Artwork di @soupcubed

È più facile indicare un sigma male che definire il sigma male. Almeno, è facile indicarlo per tutti coloro che sono familiari con un certo layer di comicità, che abitano un certo angolo dell’Algoritmo. Un angolo tutt’altro che piccolo, e ciononostante fortemente connotato. Chi lo abita indicherebbe come esempi Homelander (The Boys), “QuellodiDrive”, “RobertDeNiroinTaxiDriver”, Walter White, oltre che l’immancabile Patrick Bateman, il sigma male par excellence. Il “Sigma Bale”, anzi. Potrebbe risultare difficile distinguerlo dal più noto alpha male, che poi in fondo è il motivo per cui è nato il nuovo lemma. Grossomodo, la differenza è la dipendenza dalla validazione sociale. Il sigma male è un duro ma non gli importa di essere un duro: lo è come effetto collaterale della sua personalità. L’alpha male piace alle donne e in ciò trova la propria validazione; il sigma male piace alle donne ma raramente corrisponde e quando lo fa, lo fa in maniera assolutamente disimpegnata, gratuita. Alcune interpretazioni del sigma male lo legano al denaro, o meglio ad un recupero della vecchia etica protestante del successo professionale, ora rinnovata da qualche guru del web che la collega ad un rifiuto sdegnoso delle donne, che diventano una distrazione frivola. Alcuni temi à la Jordan Peterson, per intenderci. Sono interpretazioni successive e minoritarie. Il sigma male in linea di massima è indipendente anche dal denaro. Un’altra caratteristica che può venire in mente è la violenza, in quanto tipica dell’immaginario virile, ma in verità essa è quasi totalmente espulsa dalla maschiopoiesi internettiana. La ragione è tutto sommato intuitiva: l’utilizzatore medio di internet, di un certo internet internazionalizzato, è membro certificato del ceto medio; il ceto medio ha da tempo espulso la violenza come risorsa comportamentale; il maschio del ceto medio non è primariamente violento, non essenzialmente. Può essere aggressivo, ma non violento, ed anzi questo differimento può ispirare tutta una serie di soluzioni creative (i film Fargo e Suburbicon, per dirne un paio).

Il sigma male sembra quindi configurarsi in prima battuta come una riedizione dell’alpha male in salsa più individualistica, fino alla ipervalorizzazione della solitudine.

Il sigma male sembra quindi configurarsi in prima battuta come una riedizione dell’alpha male in salsa più individualistica, fino alla ipervalorizzazione della solitudine. Se questa interpretazione regge, è una partenogenesi abbastanza prevedibile: l’ennesimo frutto della disaffiliazione che accompagna la società industriale, ovvero della lenta scomparsa dei legami che vincolano l’individuo a un certo numero di formazioni sociali. Queste istituzioni preindustriali o paleoindustriali (famiglia, patria, lavoro, aggirando in questa sede la Chiesa) avevano continuato a comporre magna pars dell’immaginario del maschio alfa. Certo, erano risignificate, per carità. Erano divenute più sfilacciate, meno sacrali. Però il sigma male nasce nel contesto di un avvenuto sfilacciamento, e tendenzialmente esprime una diserzione rivendicata e fiera rispetto alle queste istituzioni, già logorate dalla suddetta disaffilazione. Un tornante “libertario”, per così dire, per l’alfa male. La laicizzazione dei valori ha scoperto il fianco a contaminazioni sempre più importanti con il personaggio dell’outsider, del ribelle, dell’anticonformista. Del sofferente il cui dolore allude ad una certa autenticità. Il risultato è Patrick Bateman, uomo di successo che gioca sui due tavoli del successo intra-sociale e del fascino antisociale. Una nuova tappa dello stesso tragitto? Un nuovo Marlboro man ancora più grande, più forte, più cattivo, più inarrivabile?

Un nuovo Marlboro man ancora più grande, più forte, più cattivo, più inarrivabile?

Una decostruzione popolare

C’è tutta una tradizione sociologica che vuole il consumatore come un attore assolutamente passivo o quasi. Lo racconta come un pezzo d’argilla nelle mani dei produttori di cultura, namely le industrie culturali. È una tradizione interpretativa che cresce in larga parte studiando le grandi vicende della cultura di massa: il jazz, la Golden Age di Hollywood, il fumetto – tanto per dirne alcuni. Intendiamoci: gli autori di questa rappresentazione sono stati dei giganti. Prendiamo il versante sinistrorso, prendiamo i francofortesi. Il “bisogno repressivo” di Marcuse o la Halbbildung di Adorno sono dei concetti incredibilmente sofisticati e traboccanti potenzialità. C’è però sempre, latente, quel paternalismo di impronta marxista (se non proprio hegeliana), per cui c’è sempre una cattiva coscienza contro una coscienza buona – alias “di classe” – e che la prima sia da identificare con lo status presente dell’operaio-massa e/o del consumatore-massa, ovvero del consumatore “così com’è”, privo di coscienza politica definita. La ricongiunzione tra queste due coscienze è delegata al lavoro dei dirigenti di partito o dei rivoluzionari di professione o talvolta proprio degli artisti (cfr. situazionismo): insomma degli intellettuali, sempre in missione speciale per conto della coscienza (quella buona, si capisce). In parole semplici: “lasciate da sole” le masse sono ingenue vittime di potentissimi sistemi ideologici, e serve che intervenga la mano del deus ex machina di turno per liberarle dalla condizione di alienazione culturale, di incoscienza, di conformismo, di rappresentazioni e autorappresentazioni pericolose. Excursus a parte, come società siamo molto simili a questo modello. Abbiamo tante, tantissime storie di rappresentazioni cattive che schiacciano persone buone, a destra come a sinistra. Abbiamo mascolinità tossiche e teorie gender, eteronormatività e globalismi fluidisti. Non tutte le narrazioni sono sullo stesso piano e non sono tutte “vere”, ma lo schema è lo stesso, e difatti siamo una società estremamente attenta alla produzione delle rappresentazioni: a come sono prodotte, a cosa includono, a cosa escludono, a chi le produce. Ipso facto siamo estremamente attenti agli attori dell’industria culturale, che ora include tutte le piattaforme social e che è la responsabile di ultima istanza di cosa ci danno da mangiare (culturalmente). Lo siamo in numero sempre maggiore: non è una forma mentis riservata solamente a qualche intermediario culturale.

Siamo una società estremamente attenta alla produzione delle rappresentazioni: a come sono prodotte, a cosa includono, a cosa escludono, a chi le produce.

Non è per forza così. Non siamo sempre pezzi di argilla nelle mani di rappresentazioni onnipotenti. Quella del sigma male non è la solita storia di una rappresentazione cattiva che magari si fa largo sui canaloni di Twitch o Youtube o Instagram o Facebook (Hollywood ha perso posizioni nella produzione culturale) e che produce legioni di vittime-carnefici. Certo, è anche questo – vedi le varianti jordanpetersoniane di cui sopra. Però è anche e soprattutto la storia della spontanea sovversione di una rappresentazione. L’antitesi della rappresentazione è la realtà. La rappresentazione è un racconto della realtà, è sempre in parte un’auto-narrazione, ma ciò non significa che sia un reportage, anzi: niente dice che debba essere aderente alla realtà. Deve esprimerne le norme, i valori, le credenze, e il simbolo che ne risulta diviene un imperativo, un ideale regolativo. Il rapporto con i nostri simboli è normalmente un rapporto di adeguamento, nel senso che i simboli sono le risorse che usiamo per produrre la nostra identità. Non c’è nulla di male: il grido risentito dell’autenticità è un mito ingenuo di ascendenza romantica, e appunto è un mito anche quello. Così si produce sempre una contraddizione latente nel processo di rappresentazione, quantomeno a livello logico, perché quanto è presente nella rappresentazione può essere assente nella realtà e viceversa. Tuttavia, è vero che possono esistere sistemi simbolici per adeguarsi ai quali si è tenuti a mutilare la realtà in forme particolarmente orrende, a negare grandi capitoli della quotidianità. Ovvero: se ogni rappresentazione presenta caratteri non realistici, è anche vero che alcune rappresentazioni esagerano questo scollamento, mortificano aspetti importanti della realtà.  Nel caso della costellazione della Virilità, è cosa nota che il sacrificio punisce la fragilità, l’inettitudine, la debolezza. Superman non esiste, ma neppure John McClane. Il modello è strutturalmente irraggiungibile, irrealistico, inadempibile. Fin qui tutto relativamente bene e tutto decisamente noto, e d’altronde “l’inadempibilità della virilità” è un concetto di cui le grandi produzioni culturali si sono largamente appropriate, realizzando un ampio numero di opere che vedono un protagonista macho che comprende il valore dei legami affettivi e l’importanza di chiedere aiuto. La decostruzione di modelli simili al sigma male si svolge e si è già svolta proprio sui binari dell’inadempibilità. L’affaire sigma male è però la vicenda dell’appropriazione orizzontale, popolare, di questa forma di decostruzione, e persino del suo superamento.

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L’ affaire sigma male è però la vicenda dell’appropriazione orizzontale, popolare, di questa forma di decostruzione, e persino del suo superamento.

“Literally me”

In molte braccia della galassia memica, il sigma male è usato come contrappasso per evidenziare con ironia una realtà di fragilità, di inettitudine, di debolezza. Una realtà esasperata che utilizza molti elementi tipici dell’infanzia o della pubertà: paura del giudizio altrui, paura di parlare con le donne, paura del buio (o di altri elementi tipicamente spaventevoli per i bambini); incapacità o inadempienza rispetto a obblighi sociali; rapporto contrastato coi genitori raccontato secondo la prospettiva di un figlio oggettivamente deludente…. Non solo: è proprio l’identificazione in sé ad essere oggetto della risignificazione, e questo è l’aspetto davvero interessante. Gran parte di questi meme non sono altro che scenette di individui:

1) Incapaci di accettare di non essere un sigma male

2) Smaniosi di identificarsi con un modello che nel meme stesso è dipinto come assolutamente distante

Il vertice concettuale che guida queste rappresentazioni è quello del “literally me”. “Literally me” non è altro che l’espressione ironica dell’identificazione, del rapporto rappresentato-rappresentazione, deformata tramite l’uso sistematico di un linguaggio adolescenziale, de-problematizzato, come quello cui rimanda la formula “letteralmente io”. Un linguaggio adolescenziale e ingenuo per un’identificazione adolescenziale e ingenua, che viene rievocata come tale e quindi disattivata nelle sue pretese. La letteralità è già lo scherzo, l’evidenza su un’identificazione evidentemente impossibile. La rappresentazione è sovvertita in quanto rappresentazione: è evidentemente una critica significativamente più profonda della demolizione esterna del personaggio, come può darsi in una parodia, che lo deforma e lo mette in ridicolo. Diversamente, e in maniera affatto efficace, la gogna pubblica non tocca il simbolo, che diviene oggetto di una decostruzione post-parodistica. L’oggetto dell’ironia è l’idea che vi possa essere una qualsiasi identificazione con una rappresentazione evidentemente eccessiva, e al tempo stesso il dato di fatto che questa identificazione avvenga e che sia centrale nella narrazione del sé cui ogni maschio ha partecipato, cui ogni maschio è stato esposto. Ognuno ha partecipato dell’identificazione, e non c’è alcuna intenzione di negarlo; d’altronde al “literally” segue “me”, non c’è alcuna identificazione di un gruppo esterno da mortificare e umiliare. Il gruppo cui rimanda è l’insieme degli uomini. Che è al tempo stesso l’unica vera vittima dell’ironia, che lascia invece intatto il rappresentante. Il simbolo non solo rimane intoccato, ma il memer sembra partecipare della sua idealizzazione. Anzi, effettivamente il memer partecipa dell’idealizzazione del simbolo, perlomeno nella misura in cui questa produzione memica ha portato alla riscoperta e alla cultualizzazione dei prodotti cinematografici nei quali gli idealtipi del sigma male sono presenti: Patrick Bateman è un personaggio veramente figo e tra parentesi Christian Bale è molto bello. Il sigma resta intonso: è il male ad accartocciarsi. L’Uomo, direttamente (come nell’immagine) o indirettamente (tramite il “me” che rimanda sempre e comunque ad un creator maschio), è illustrato come infantile, bambinesco. La critica della rappresentazione, schivando la critica del rappresentante, si rovescia come critica del rappresentato in quanto dipendente nel rapporto di rappresentazione; risultato di questo processo è una nuova rappresentazione, foggiata nella forma auto-ironica della non-auspicabilità della rappresentazione. In parole povere, non si fa banalmente ironia sui personaggi che rappresentano gli archetipi del sigma male, ma si fa ironia su quell’uomo comune che è in tutti gli uomini e che cresce nell’ossessione di voler assomigliare a quei personaggi, nonostante sia quanto di più distante. Di fatto, però, quanto si mette in ridicolo è l’idea stessa che questa rappresentazione rappresenti un elemento positivo, che sia desiderabile. Qui torniamo sulle strade del noto: a una rappresentazione deve sempre opporsi un’altra rappresentazione. Ciò non toglie che il senso della nuova rappresentazione sia differente per effetto del retaggio della destituzione: è una rappresentazione che si vuole reale e che si presenta sempre come opposta alla prima rappresentazione, in una destituzione infinita.

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Ognuno ha partecipato dell’identificazione, e non c’è alcuna intenzione di negarlo; d’altronde al “literally” segue “me”, non c’è alcuna identificazione di un gruppo esterno da mortificare e umiliare.

Il gruppo cui rimanda è l’insieme degli uomini. Che è al tempo stesso l’unica vera vittima dell’ironia, che lascia invece intatto il rappresentante. Il simbolo non solo rimane intoccato, ma il memer sembra partecipare della sua idealizzazione. Anzi, effettivamente il memer partecipa dell’idealizzazione del simbolo, perlomeno nella misura in cui questa produzione memica ha portato alla riscoperta e alla cultualizzazione dei prodotti cinematografici nei quali gli idealtipi del sigma male sono presenti: Patrick Bateman è un personaggio veramente figo e tra parentesi Christian Bale è molto bello. Il sigma resta intonso: è il male ad accartocciarsi. L’Uomo, direttamente (come nell’immagine) o indirettamente (tramite il “me” che rimanda sempre e comunque ad un creator maschio), è illustrato come infantile, bambinesco. La critica della rappresentazione, schivando la critica del rappresentante, si rovescia come critica del rappresentato in quanto dipendente nel rapporto di rappresentazione; risultato di questo processo è una nuova rappresentazione, foggiata nella forma auto-ironica della non-auspicabilità della rappresentazione. In parole povere, non si fa banalmente ironia sui personaggi che rappresentano gli archetipi del sigma male, ma si fa ironia su quell’uomo comune che è in tutti gli uomini e che cresce nell’ossessione di voler assomigliare a quei personaggi, nonostante sia quanto di più distante. Di fatto, però, quanto si mette in ridicolo è l’idea stessa che questa rappresentazione rappresenti un elemento positivo, che sia desiderabile. Qui torniamo sulle strade del noto: a una rappresentazione deve sempre opporsi un’altra rappresentazione. Ciò non toglie che il senso della nuova rappresentazione sia differente per effetto del retaggio della destituzione: è una rappresentazione che si vuole reale e che si presenta sempre come opposta alla prima rappresentazione, in una destituzione infinita.

La nuova rappresentazione non è il semplice negativo di quella vecchia, nonostante l’apparenza possa trarre in inganno. C’è un rovesciamento, certo, c’è una specularità, ma è indiretta, o almeno non si realizza nel vuoto di un rapporto esclusivo. Le risorse culturali usate per produrre la nuova rappresentazione provengono, come si anticipava, da un immaginario tipicamente legato all’infanzia. Il nostro obiettivo in questa sede è raccontare una sorta di rivincita, nata spontaneamente, che ridicolizza il rapporto di dipendenza tra rappresentato e rappresentante; raccontare come ridicolizzi quasi l’idea stessa di rappresentazione. Tuttavia, come dicevamo, è inevitabile che la critica di una rappresentazione scivoli in una nuova rappresentazione, e un pur parziale resoconto del caso del sigma male richiede un abbozzo dei suoi risvolti positivi. Ebbene, la nuova rappresentazione è quella del bambino orfano della rappresentazione, che mantiene il proprio legame di dipendenza identitaria con la rappresentazione destituita come anelito non tanto impossibile ma improbabile, ossia risibile, divertente. Nel gioco della permanenza, ove lo spettro del destituito recita una parte essenziale, vengono restituiti due elementi. Il primo è quello di costruzione del nuovo, per cui in larga parte l’infante è tale proprio perché è orfano, proprio perché fa riferimento ad un’identificazione improbabile e perché reagisce in forma isterica dinanzi alla paura della disidentificazione. Il secondo è più incerto, ma possiamo almeno suggerirlo: il memer denuncia che l’identificazione, in parte, resta. L’ammirazione, pur critica, per il personaggio, per quel duro rimaneggiato dall’outcast che è il sigma male, non può e non vuole essere completamente abbandonata. Si torna così sul tema della non-critica del sigma in sé e per sé. Si apre così il tema della connotazione interna e non moralistica della sovversione. La sovversione è interna non solo empiricamente, perché è prodotto di un’utenza tutto sommato maschile, ma perché è svolta interamente dal punto di vista del rappresentato. Il maschio non risponde all’ennesima chiamata del Maschile Eterno e lo sovverte, ma sempre in riferimento alla chiamata stessa. Riconosce, in qualche modo, di trovare nel sigma male la propria mitologia, la rappresentazione alla quale era stato destinato e nella quale, come turista, si trova ancora a proprio agio. Le forme della critica sono le forme di una biografia, la denuncia pura e semplice di un’incompatibilità. Forse proprio questa condizione di interiorità ha permesso lo sviluppo di una critica non moralistica del sigma male. Sia detto che, in linea di massima, nessuno è il moralista di sé stesso, per cui da una narrazione fondamentalmente autobiografica non c’è mai da aspettarsi del moralismo. Inoltre, la critica moralistica è una critica semantica, ovvero una critica che enuclea le implicazioni di un concetto (ivi compreso un simbolo) per poi denunciarle. L’oggetto della critica è sempre e comunque il simbolo come possibile attore morale, o più precisamente come possibile risorsa della condotta morale: il simbolo è così criticato in quanto tossico, termine che usiamo come sinonimo di “irresponsabile”, “eticamente pericoloso”, “indesiderabile”. Niente di tutto ciò nel fenomeno che abbiamo descritto. Il progressismo prodotto dallo scavare di uno spirito critico collettivo sempre più raffinato è un progressismo indiretto.

È una critica ad un immaginario tipicamente di destra, e intuitivamente possiamo azzardare che funzioni molto meglio rispetto al progressismo diretto, classico, moralistico, ortopedizzante.

I memer che nutrono il meme del sigma male non sono necessariamente progressisti. Certo, molto probabilmente si definirebbero tali nella dicotomia conservatore/progressista; molto probabilmente votano a sinistra o magari non votano, ma per ragioni di sinistra. È però evidente che non si tratta di meming di sinistra. Non fa riferimento a risorse comuni alla sinistra o identificative per la sinistra, non è indirizzato a un pubblico di sinistra, non ha ipoteche valoriali forti. Ciononostante, è una critica ad un immaginario tipicamente di destra, e intuitivamente possiamo azzardare che funzioni molto meglio rispetto al progressismo diretto, classico, moralistico, ortopedizzante. È una lezione preziosissima combattere la zavorra di paternalismo che il progressismo si porta dietro che non viene esercitata solo contro l’avversario ma anche sul solito Jon Doe. Jon Doe che si sta professando indisponibile alla menzogna della rappresentazione. Un atto critico non esattamente da poco.


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