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raffaele alberto ventura

Little work and too much play makes the West a fragile toy20 min read

Little work and too much play makes the West a fragile toy

Intervista a Raffaele Alberto Ventura sulla regola del gioco: internet, la collisione di codici, il collasso del contesto, la “cancel culture”, McLuhan, Marx e La vita è meravigliosa in Cina.

 

di Siamomine

Artwork di Giulia Bertini

Da qualche giorno è stato pubblicato da Einaudi il nuovo libro di Raffaele Alberto Ventura: La regola del gioco. Un testo che approfondisce in maniera articolata i nuovi codici di comunicazione globale affrontando le goffe campagne di branding, le culture wars, i conflitti identitari, sessuali, morali deflagrati nel nuovo mondo di internet.

Lo abbiamo intervistato su questo e sugli altri testi che – dall’uscita di Teoria della Classe disagiata – hanno battuto il passo del dibattito contemporaneo.

Per introdurre La regola del gioco, hai scritto che “in un mondo sociale iperconnesso e percorso da tensioni, solo una rigida igiene del linguaggio permette di incanalare il conflitto tra soggetti e comunità […] Ma dove sta scritta la regola del gioco? Da nessuna parte, questo è il problema.”
Quindi, ti chiedo: è possibile costruire un codice comune per comunicare o qualsiasi tentativo si scontrerà con decodifiche divergenti – o addirittura aberranti – che porteranno inevitabilmente al conflitto?

In effetti la specificità della nostra epoca non è solo, e non è tanto, che i codici siano cambiati e continuano a cambiare con incredibile velocità, senza mostrare alcun segno di volersi stabilizzare, ma inoltre e soprattutto che diversi codici coesistono, e ognuno di essi è in continuo movimento. Notate bene che il mondo del passato non era necessariamente immobile e monolitico – ad esempio, se osserviamo il Medioevo con l’occhio della microstoria vediamo che dietro la narrazione cristiana dominante c’è un mondo periferico, rurale, insulare, di controcondotte fuori da ogni giurisdizione – ma quel mondo, comunque più lento, era inoltre caratterizzato da un’illusione di coerenza e coesione che di fatto produceva una sorta di unità, attraverso il monopolio delle rappresentazioni. In un contesto di disintermediazione delle rappresentazioni e proliferazione dei codici, l’unica forma di stabilizzazione possibile (oltre che necessaria) riguarda il meta-codice che si adotta quando non si sa quale codice specifico adottare. Insomma il codice idoneo alla comunicazione pubblica. In un contesto familiare, non ho bisogno di menzionare tutti gli impliciti e i presupposti, posso fare delle battute e verranno capite o perlomeno tollerate; in altri contesti, potrebbero invece essere recepite molto male. Ma oggi tutto è decontestualizzabile. Quindi io credo che, malgrado il movimento molteplice di circolazione dei codici, si stanno progressivamente stabilizzando delle nuove regole generali di precauzione comunicativa da usare negli spazi neutri, nelle intercapedini tra i diversi contesti, o in specifici contesti sensibili, soprattutto per chi dipende dalla propria reputazione per ragioni professionali – ovvero i lavoratori del terziario avanzato e più precisamente le élite.

raffaele alberto ventura la regola del gioco

Ne La guerra di tutti scrivi che i tre «maestri del sospetto» – Nietzsche, Marx e Freud – in buona compagnia della genealogia del sapere/potere di Michel Foucault – ci hanno insegnato che è più che legittimo dubitare del sapere ufficiale, storico, medico, economico. Oggi contempliamo le rovine dello storytelling dominante: un’epoca di sospetto generalizzato e paranoia contro ogni figura “competente”. Cosa succede nell’interregno in cui le vecchie mappe non rappresentano più il territorio e nessuno è in grado di disegnarne una efficace?

RAV – In quel passo volevo attirare l’attenzione sulla convergenza imprevista tra un discorso filosofico propugnato dagli intellettuali, soprattutto negli anni 1960/1970, e un sentimento di rivalsa che oggi viene associato al populismo. Una figura come Giorgio Agamben, erede della prima tradizione e poi abbracciato da una certa destra per le sue posizioni sul Covid, incarna questa convergenza. Io personalmente mi riconosco abbastanza in una visione storicista, relativista, costruttivista, pragmaticista del mondo – oltre a capire le ragioni che l’hanno portata a diffondersi in reazione agli inciampi delle politiche economiche o sanitarie – ma mi preoccupo anche per gli effetti sociali di questa visione. Insomma sono affezionato alle “finzioni necessarie” che tengono in piedi la società: prima la religione, poi il mito del progresso. Ai tempi del Covid, mi era evidente che stessimo adottando una politica iper-precauzionista ma mi è parso che svolgesse comunque una funzione di collante sociale, come un grande rituale collettivo con tratti d’irrazionalità. Cosa succede se nessuno crede più in una verità condivisa? Succede un gran casino. In fondo l’idea di verità oggettiva, sulla quale si fonda la scienza moderna, è innanzitutto il sottoprodotto di uno sforzo politico per costruire degli spazi di neutralità artificiale in un tempo di guerre di religione. Ma oggi il problema è che questa verità condivisa non possiamo imporla con la forza: gli strumenti di ingegneria sociale connessi alla sovranità dello stato-nazione sono spuntati, perché a monte il sistema non è in grado di fornire dei risultati all’altezza delle sue promesse. Quindi nascono nuovi paradigmi per riempire i vuoti di un discorso mainstream sempre più insoddisfacente.

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«Insomma sono affezionato alle ‘finzioni necessarie’ che tengono in piedi la società: prima la religione, poi il mito del progresso»

Durante la conclusione de Le Eumenidi di Eschilo, Atena mette simbolicamente fine alla vendetta delle Erinni che alimenta la guerra civile nella società, e fonda la giustizia del tribunale imparziale. Mi colpisce il fatto che la dea inviti le Erinni ad abitare il sottosuolo della città (quindi non le bandisce). E che ammonisca la cittadinanza riguardo al δεινόν, una parola che in greco antico ha diversi significati – ‘tremendo, sgomento, terrore’ – in pratica ordina di non cacciare fuori dalle mura della città il δεινόν, ciò che fa tremare. Questo ritorno di populismi e risentimento nella nostra società potrebbe dipendere dal fatto abbiamo pensato di aver sconfitto per sempre delle forze che saranno sempre nel sottosuolo della società e che potrebbero prendere il sopravvento se rifiutiamo di vederle (di riconoscerle, nonostante tutto, come propriamente umane)?

In effetti ci siamo illusi di avere liquidato problemi che invece ancora permangono, o meglio che possono in ogni momento riemergere. Atena, forse, sapeva che certi costumi ancestrali tornano a servire quando la civiltà entra in crisi. La vendetta è una tecnologia sociale come altre, con evidenti tratti di disfunzionalità ma anche le sue funzioni di coordinamento (penso, ad esempio, alla sua potente capacità di disrupzione dell’ordine stabilito, pensa alle guerre di liberazione anticoloniali). Il populismo ha la stessa capacità di disrupzione, è una forma di irrazionalità e di rischio da cui ogni società deve irrimediabilmente passare quando ha bisogno di rinnovarsi.

La regola del gioco ha a che fare con il collasso del contesto? È possibile provare a risolvere questa aporia della comunicazione del terzo millennio in cui mentre aumenta esponenzialmente l’accesso alla parola pubblica di comunità sempre più specifiche (i tifosi laziali antifascisti, la british black gen Z, le femministe trans-escludenti argentine, il gruppo del quartiere Quarto Oggiaro, e così via) i messaggi vengono estratti dal proprio pubblico di riferimento (le comunità sempre più specifiche) e spediti – senza alcuna indicazione di contesto – lungo vie elettroniche globali e sempre più connesse?

Siamo nel contesto del non contesto, come cantavano i Girls vs Boys. Dopo avere cercato disperatamente tecnologie in grado di fare arrivare i nostri messaggi al massimo numero di persone, ora poco a poco ci stiamo attrezzando per creare nuove strutture algoritmiche in grado di convogliare i messaggi solo là dove questi ci rechi vantaggio. Ma inoltre, io credo, dobbiamo davvero imparare a usare linguaggi adatti ai contesti e, in assenza di contesto o di fronte alla possibilità di decontestualizzazione, ricorrere al meta-linguaggio molto generico di cui parlavo sopra. D’altronde non è mai avvenuto nella storia umana, prima del nostro temporaneo rincitrullimento dell’ultimo mezzo secolo, che si comunicasse senza fare attenzione alle conseguenze e alle reazioni. Voltaire aveva sviluppato un sapiente sistema di codifica ironica, e Bourdieu affermava di ricorrere a uno stile di scrittura complesso proprio per mettere una soglia all’ingresso dei suoi testi.

«La cancel culture in senso stretto mira innanzitutto a ‘controllare i canali’»

C’è una relazione tra la cosiddetta cancel culture, il bisogno di riconoscimento e questa infittirsi delle reti di comunicazione?

Proseguendo la lettura comunicativa o informazionale che mi proponi, direi che la cancel culture in senso stretto mira innanzitutto a “controllare i canali”. Se io, individualmente o come gruppo, riesco a influenzare quello che può essere detto o non detto su un certo canale – un social network o una sua parte, un festival letterario, una nicchia subculturale – allora in un certo senso divento il gatekeeper di quel canale, me ne approprio. Oggi, a fronte dell’abbassamento delle barriere all’ingresso della comunicazione, il potere non consiste più nel potermi esprimere in generale, che davvero non si nega a nessuno, ma nel potermi esprimere sulla scala idonea al mio messaggio, nel canale giusto. Il che spiega questa competizione agguerrita per il controllo dei canali, che è molto più importante di quello che poi andiamo a mettere nei canali.

Il termine “Climate change” fu diffuso nell’infosfera dai conservatori americani
su consiglio del guru del linguaggio Frank Luntz
. Il motivo è che la locuzione avrebbe inquietato meno di “Global warming” l’opinione pubblica americana. C’è un motivo, secondo te – oltre all’incredibile mole di denaro riversata nei Think Tank conservatori – per cui i frame linguistici che utilizziamo provengono soprattutto da quell’area politica? E perché la cosiddetta sinistra non dà altrettanto importanza all’operazione di framing?

Beh oddio, è vero anche il contrario, sia “cancel culture” che “politicamente corretto” che “woke” sono termini che vengono dal mondo progressista, come descrizioni positive o denunce semi-ironiche di derive interne. Ma certo poi questi termini sono stati tutti sottratti per entrare nei framing della destra. Credo che c’entri con la crisi dell’egemonia culturale della sinistra, perlomeno in Italia, perché in America mi pare che il fatto stesso che certi temi siano diventati mainstream – pensa al gender – è segno di una capacità egemonica non da poco, ovviamente in certi ambienti e non in altri. Io credo che sia perché l’egemonia non si decide a tavolino, non è soltanto questione di trovare dei miti seducenti, ma anche di appoggiarli a esigenze concrete e rapporti di forza reali. Negli USA puoi fare egemonia attorno a certi temi perché aggregando minoranze etniche e sessuali puoi costruire un partito maggioritario, in Italia non ci sono i numeri per farlo, il partito delle minoranze non puo andare oltre il 30%.

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“Non è soltanto questione di trovare dei miti seducenti, ma anche di appoggiarli a esigenze concrete e rapporti di forza reali”

Sembra che oggi la posizione vittimaria sia la più ambita da tutti. Quasi che il conferimento di questo status trasformi automaticamente in un parresiasta, qualcuno che ha il dovere morale di dire-la-verità-al-potere. E quindi politici, generali, giornalisti, sembrano tutti giocare allo stesso gioco: urlare davanti a centinaia di migliaia di persone, preferibilmente in televisione o giornali mainstream, che “loro non possono parlare”. Cosa ci racconta del territorio politico e comunicativo contemporaneo (ammesso che sia contemporaneo, ma mi sembra di sì)?

Sono d’accordo. Da un certo punto di vista potremmo vedere la condizione di vittima come una “scorciatoia” per aggirare la quantità crescente di norme e di criteri che ognuno di noi è costretto a rispettare per sopravvivere in una società sempre più regolata, per l’accesso al lavoro, alla parola pubblica, alla dignità sociale. Ovvero da una parte si alza una barriera e dall’altra si creano dei passaggi, altrimenti il sistema sarebbe totalmente paralizzato in un meccanismo di riproduzione sociale rigidissimo.

Il sottotitolo di Understanding the media, il libro più famoso di McLuhan, è “The Extension of Man”. In brevissimo, per il filosofo canadese ogni mezzo di comunicazione è un’estensione o un’amputazione del corpo umano: secondo te, cosa ci stanno amputando i social media? E in cosa – al di là di tutte le analisi catastrofiche – ci hanno permesso di migliorare come esseri umani?

È interessante concentrarsi sull’amputazione. In effetti i social ci hanno amputato il corpo fisico, quello che sta nello spazio assieme agli altri, ci hanno permesso di comunicare senza però confrontarci con gli occhi dei nostri interlocutori, che potrebbero farci sentire in imbarazzo per quello che diciamo loro tranquillamente online, ma anche delle loro braccia e delle loro mani, che potrebbero alzarsi contro di noi per sanzionare una battuta troppo sagace. Insomma ci hanno resi più liberi, e questa è una cosa positiva, ma poi ci hanno fatto confrontare con le conseguenze di questa libertà, e questo è… complicato.

Friedrich Engels in una lettera a Joseph Bloch scrisse che la sovrastruttura – il piano politico, giuridico e culturale di una società – non era semplicemente un prodotto dei suoi rapporti economici: “Del fatto che da parte dei più giovani si attribuisca talvolta al lato economico più rilevanza di quanta convenga, siamo in parte responsabili anche Marx e io. Di fronte agli avversari dovevamo accentuare il principio fondamentale, che essi negavano, e non sempre c’era il tempo, il luogo e l’occasione di riconoscere quel che spettava agli altri fattori che entrano nell’azione reciproca.”
Forse, la storia sarebbe potuta andare diversamente se i vari marxismi più o meno eretici di Debord, Althusser, Benjamin, i Francofortesi e così via, fossero stati presi sul serio non solo dai movimenti sociali. Se si fosse capito quanto l’immaginario sia un territorio di scontro e creazione che non si può ridurre a un paio di slogan. Troppo? Sto immaginando un multiverso solo mio?

Il punto è che sono stati presi sul serio! Nel senso che la temperie culturale degli anni 1970 – quando il marxismo “civilizzazionale” di Marcuse e dei situazionisti era egemone tra i giovani di sinistra – ha portato precisamente a una liquidazione del materialismo a favore dell’idea un po’ ingenua che si potesse chiudere gli occhi sull’economia e concentrarsi sull’immaginario. È sempre bello immaginare una controstoria del movimento operaio in cui anarchici e comunisti si tengono a braccetto oppure il marxismo occidentale trionfa, integrando Marx e Weber, ma alla fine dobbiamo fare i conti con il fallimento non soltanto del socialismo reale, ma anche dell’opposizione di sinistra, che ha prodotto un centro ignavo. Ho paura che non bastino le buone idee per contrastare tendenze secolari che collegano in modo quasi meccanico la ragione moderna alla distruzione del mondo. Ma le buone idee, e gli immaginari, sicuramente possono aiutarci a rendere un po’ meno terribile il decorso.

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La risignificazione e la riappropriazione del meme di Dark Brandon sul presidente USA Biden da parte del Partito Democratico americano rivela qualcosa della direzione che stiamo prendendo nella comunicazione politica?

A me fa pensare al signor Skinner vestito da ragazzino.

Hai scritto che c’è stato un ’68 tecno-pessimista che è emerso culturalmente in particolar modo con lo Lo choc del futuro di Alvin Toffler nel 1970, con il robot HAL 9000 in 2001 di Kubrick e con il personaggio Ultron creato da Roy Thomas negli Avengers. Oggi intorno alla GenAI si sta sviluppando un vero e proprio marketing della catastrofe. Sembra quasi che le lenti attraverso cui osserviamo lo sviluppo della tecnologia siano ormai queste, o quelle di Westworld (che per inciso è del 1973), in cui l’essere umano verrà sconfitto dalle stesse forze che ha evocato aprendo il vaso di Pandora. Ci sono altre lenti che potremmo indossare senza apparire ingenui tecnoentusiasti di Barbieland?

Sinceramente il mondo è messo così male – a un passo dalla reazione a catena che rischia di portare alla disrupzione delle catene del valore su cui reggono il benessere e le istituzioni democratiche – che a questo punto ogni nuovo rischio costituisce un elemento di novità potenzialmente capace di compensare un altro rischio. Perché non l’intelligenza artificiale? Insomma, per come siamo messi tanto vale puntare sulla fisica del castello di carte: fragilissimo e sull’orlo del crollo, ma intanto quel mix di forza applicata al baricentro, reazione del piano, attrito statico eccetera fa stare tutto su. Finché dura.

A questo punto ogni nuovo rischio costituisce un elemento di novità potenzialmente capace di compensare un altro rischio

Mi fece sobbalzare all’epoca quando lessi su Teoria della classe disagiata che in fondo il responsabile della crisi dei mutui subprime 2007 non era altri che il buon George Bailey de La vita è meravigliosa che prestava soldi per una casa senza chiedere in cambio garanzie. Sembra che anche in Cina ci sia seria preoccupazione per una crisi immobiliare che potrebbe travolgere tutto. Anche se non siamo ancora morti, sta arrivando la fine di quel lungo periodo di cui parlava Keynes in cui le teorie economiche non reggono più?

Io ho una teoria sulle teorie economiche, ed è che la loro verità conti meno della loro verosimiglianza (e la verosimiglianza spesso la genera la forza). Le teorie economiche servono innanzitutto a coordinare gli attori. Questo è evidentissimo se guardi come influenzano i rating, e quindi il costo del credito, e quindi le performance di un’economia. Possiamo fare mille giri attorno a variabili minori, ma il vero fattore di successo almeno sul breve-medio termine – presupponendo un’economia produttiva, ovviamente, e non un buco nero di corruzione e consumo improduttivo – è quanti soldi riesci ad alzare e a che condizioni. Vediamo già come stanno cambiando i paradigmi economici, e come il giudizio degli attori sta cambiando: ora il ruolo del settore pubblico viene di nuovo visto di buon occhio, perché è garanzia di aiuti statali e di offerta stimolata. Insomma ha senso solo fino a un certo punto interrogarsi sulla capacità previsionale di teorie che hanno, per gran parte, carattere di profezie che si autoavverano. Nell’ultimo secolo la teoria più giusta è semplicemente stata quella della potenza con l’esercito più forte.


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