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Lotta di classe freelance15 min read

Lotta di classe freelance

Quali sono le forme di organizzazione collettiva di chi svolge un lavoro freelance.

di Irene Doda

Diceva Zadie Smith che scrivere è un fallimento riuscito, un tradimento di sé, una dolorosa ricerca della propria cartografia interiore. È un modo di fare i conti con i propri traumi, di dare una faccia pulita a qualcosa di sgradevole e appiccicoso che ci si rigira dentro. Scrivo da quando ho memoria di pensare pensieri miei. Oggi, alla soglia dei ventotto anni, provo uno strano miscuglio di sensazioni nel dire che per lavoro faccio la scrittrice. Al lavoro ho sempre associato qualcosa di distaccato dalla mia identità, foriero di conflitto sia individuale che collettivo. Mi chiedo quindi come si possa conciliare un’attività così intima come la scrittura con gli aspetti politici del lavoro.

Ho lasciato un posto in azienda per dedicarmi alla scrittura a tempo pieno. Non è una risoluzione romantica, e probabilmente nemmeno ingenua; è la decisione di una persona con mezzi economici sufficienti a correre qualche rischio per coltivare un talento, inseguire un sogno, o qualsiasi altra etichetta zuccherosa. I lavori artistici, come la scrittura, la musica o la pittura sono, come tanti altri, un modo per portare del cibo sulla tavola. Ci si siede la mattina alla scrivania e la prima cosa a cui si rivolge la mente non sono i traumi infantili e come elaborarli sulla tastiera di un computer; si pensa piuttosto alla prossima fattura, alla lista di cose di fare, alle consegne e alle mail a cui rispondere. La creatività e coloro che la praticano sono calate in una realtà materiale impossibile da ignorare, che filtra inevitabilmente nella vita quotidiana e che delle creazioni artistiche determina produzione e fruizione. Lavorare da freelance, in più, significa nella maggior parte dei casi svolgere i propri compiti in solitudine.

L’intellettuale che osserva il mondo dalla torre d’avorio è un archetipo che non si applica facilmente alla classe dei lavoratori e delle lavoratrici freelance in Italia. Tolta la torre d’avorio però restano le nostre scrivanie e le nostre finestre. Si lavora isolati, si lavora troppo: non ci sono gli orari da rispettare o i cartellini da timbrare. Ogni tanto si lavora gratis. Ci si sente impotenti, specialmente quando si è alla prime armi, di fronte a un mondo esterno che appare molto più intricato perfino delle nostre poetiche geografie interiori.

L’intersezione tra lavoro autonomo e lavoro nel settore creativo porta con sé gli spettri dell’impoverimento e della precarizzazione che hanno eroso gli stili di vita della classe media negli ultimi vent’anni.

Secondo i dati Eurostat aggiornati al 2018, i lavoratori culturali in Italia sono per il 46% freelance, quasi il doppio rispetto alla media europea del 22%. Secondo l’indagine di Art Workers Italia, lo strumento più diffuso tra i lavoratori artistici in Italia è la partita IVA (36%) e quasi il 20% lavora a cessione di diritto d’autore o prestazione occasionale. Il reddito, sempre secondo lo stesso studio, è inferiore ai diecimila euro annui per quasi metà del campione. La fotografia dei dati riporta una situazione di incertezza economica e mancanza di sostegno pubblico. Durante la pandemia chi svolge una professione autonoma, non potendo contare su strumenti di tutela quale la cassa integrazione o la NASPI, si è trovato a dover navigare a vista in un mare magnum di incertezza.

I lavoratori autonomi del settore creativo vivono una circostanza particolare: possiedono un’istruzione elevata, aspirazioni da élite intellettuale ma subiscono condizioni di precarietà economica da working class.

Questa situazione non vale solo per l’ambito culturale in senso stretto, ma anche per una buona fetta di lavoratori creativi con accezione più ampia: una parte del campione preso in considerazione da Art Workers Italia si occupa di comunicazione, illustrazione e graphic design (circa il 9%), mentre il 6% svolge una professione tecnica come allestitore, fotografo o videomaker.

I lavoratori autonomi del settore creativo vivono una circostanza particolare: possiedono un’istruzione elevata, aspirazioni da élite intellettuale ma subiscono condizioni di precarietà economica da working class. Diversi sociologi italiani contemporanei hanno analizzato questa situazione. Silvio Lorusso ha parlato di enterprecariat, la condizione dei precari che si raccontano e vengono raccontati come imprenditori di sé stessi ma restano incastrati nella trappola del lavoro povero; Raffaele Alberto Ventura ha parlato di “disforia di classe”.

I freelance vivono sulla loro pelle i paradossi del tracollo della classe media e le promesse disattese del tardo-capitalismo. I compensi si comprimono e la competizione a ribasso aumenta. In molti casi sono richieste prestazioni gratuite. Il crollo del valore del lavoro culturale e creativo è la più dolorosa contraddizione della cosiddetta economia della conoscenza: chi la conoscenza la produce, la alimenta e la diffonde è sottoposto a condizioni sempre più precarie ed umilianti. Quasi tutti i colleghi e le colleghe con cui ho avuto modo di confrontarmi, riferiscono problematiche simili tra loro: difficoltà a negoziare compensi equi, pagamenti in ritardo, impossibilità di pianificare a lungo termine. Alessandra, una giornalista freelance che lavora anche come copywriter e addetta stampa per una pubblica amministrazione mi racconta delle complicate negoziazioni che ha dovuto sostenere per ottenere un aumento salariale mai arrivato: al momento guadagna poco più di seicento euro a fronte di giornate lavorative che si protraggono fino a sera. Stefania, fotografa e giornalista, mi racconta di aver completamente abbandonato le collaborazioni con giornali italiani, proprio a causa di compensi in costante calo e mancanza di prospettive nel lungo periodo.

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Come organizza la propria resistenza una categoria oscillante tra il privilegio e la marginalizzazione, tra la celebrazione e l’invisibilità? In Italia esiste un’associazione che mette in rete i lavoratori e delle lavoratrici autonome, Acta. Acta offre ai suoi iscritti, oltre a una piattaforma di attivismo politico e sindacale per specifiche rivendicazioni, servizi di assistenza fiscale, pensionistica e relative agli ammortizzatori sociali, nonché una serie di convenzioni con consulenti, avvocati e commercialisti. Gli iscritti di Acta svolgono professioni molto diverse tra di loro, tutte accomunate dalla forma del lavoro indipendente: «cosa hanno in comune un web designer e un fotografo»? si legge sul sito dell’associazione. Uno delle ultime proposte portate avanti è quella di istituire un fondo unico di previdenza sociale per tutti i lavoratori autonomi. «che raccolga tutti i lavoratori autonomi che versano all’INPS e che si estenda alle attività che sino ad ora hanno sfuggito ad ogni forma di protezione». Un’altra battaglia è quella a favore dell’equo compenso, ovvero l’obbligo per le pubbliche amministrazioni e per le grandi aziende di corrispondere ai propri prestatori professionali una remunerazione in linea con i contratti nazionali di riferimento per le diverse categorie di professionisti.

L’advocacy è la forma di lotta più istituzionalizzata, ma non è l’unico vantaggio delle associazioni di freelance. Associarsi significa superare il senso di frustrazione che deriva dall’isolamento: non esistono risposte individuali davvero trasformative al sistema di sfruttamento delle lavoratrici e dei lavoratori della conoscenza. Hanno una grande importanza le reti informali, che permettono di conoscersi e sostenersi a vicenda e mettere fine alla competizione a ribasso e alla banalità della guerra tra poveri.

Un’altra realtà che si propone di porre l’attenzione sulla dimensione politica del lavoro freelance è Art Workers Italia. AWI nasce nel 2020, da uno “sforzo di immaginazione politica” di alcune persone che lavorano nel mondo dell’arte contemporanea. È un’associazione che, oltre a studi come quello sui professionisti del settore culturale e creativo che già citato prima, offre, oltre a strumenti pratici come tariffari o linee guida sui contratti, anche eventi di formazione politica, tra cui webinar su come scioperare o come farsi pagare.

A fianco di AWI ha partecipato anche l’associazione Mi Riconosci, un collettivo che si occupa nello specifico di professioni legate ai beni culturali. Lo sciopero è uno strumento storicamente tipico del lavoro dipendente, ma la protesta organizzata può trasformarsi in un dispositivo di aggregazione politica e di rafforzamento della prospettiva collettiva. In Alto Adige esiste Weigh Station, una comunità di creativi e professionisti della cultura altoatesini, a metà tra un’associazione e un co-working, che offre occasioni di aggregazione e formazione. Se la formula del co-working è spesso associata alla cultura dell’innovazione di stampo iper-individualista, Weigh Station mira a rimettere al centro la questione del lavoro e dei diritti socioeconomici dei freelance creativi. Uno degli esperimenti certamente più interessanti in Europa è quello di SMART, una cooperativa per lavoratori freelance nata in Belgio nel 1998. SMART funziona come una cassa mutua: la cooperativa firma i contratti per conto dei suoi affiliati e si assume anche i rischi finanziari, garantendo i pagamenti in tempo e l’assoluzione di obblighi amministrativi e fiscali, in cambio di una percentuale sulle fatture. SMART, che è acronimo di Societé Mutuelle Pour Artistes, (società mutua per artisti) è sempre più frequentata anche da professionisti di settori tecnici o finanziari, a riconferma del fatto che la formula del lavoro indipendente non riguarda più soltanto le industrie culturali in senso stretto. Gli esempi di organizzazioni nate dal basso per mettere in rete i lavoratori autonomi sono tanti: una delle più grandi al mondo è Freelancers Union, nata negli Stati Uniti, che rappresenta oltre mezzo milione di affiliati.

Come organizza la propria resistenza una categoria oscillante tra il privilegio e la marginalizzazione, tra la celebrazione e l’invisibilità?

Il lavoro freelance contemporaneo è   un esempio eclatante di quella che Marco Bascetta chiama economia politica della promessa: ci si impegna a fondo in una mansione  di cui si è appassionati, coltivando la speranza, in un imprecisato momento del futuro, di essere ricompensati con stipendi migliori o con un migliore riconoscimento della propria professionalità. Mi racconta Francesca, che si occupa principalmente di giornalismo di inchiesta, che questo aspetto è uno dei più complessi da gestire dal punto di vista della salute mentale: il mettere sforzi e tempo in un lavoro intellettuale raffinato senza vedere mai la fine della gavetta, con la continua erosione del proprio tempo di vita fuori dai confini lavorativi. Gran parte delle persone con cui ho parlato nella preparazione di questo testo si trovano d’accordo sul fatto che la gestione del tempo e della separazione tra vita privata e vita lavorativa sia uno degli aspetti più problematici. Il punto centrale è proprio questo: chi svolge lavori autonomi, specialmente se intellettuali o creativi, lo fa, nella maggior parte dei casi, guidato da una passione o da un senso di missione. È un’arma a doppio taglio.

Una prima questione da porsi è se abbia senso definire i freelance come una classe nel senso tradizionale del termine. La risposta è, io credo, affermativa, nel panorama sociale frantumato dove assistiamo alla convergenza tra lavoro autonomo e lavoro precario in diversi ambiti. I freelance sono un gruppo di persone che hanno in comune una serie di condizioni materiali svantaggiose che stanno sviluppando una coscienza collettiva sulle difficoltà comuni e sempre di più si associano in comunità per rendersi visibili e sostenere le proprie rivendicazioni. Non si può tuttavia omettere il fatto che chi sceglie di lavorare da freelance  abbia goduto e goda di determinati privilegi socioeconomici e disponga, generalmente, di un buon capitale culturale, di  un’istruzione di alto livello e della possibilità di lanciarsi in una professione indipendente, scelta che può essere innegabilmente agevolata dalla presenza di una rete di supporto familiare o da un buon cuscinetto di risparmi propri. Torniamo quindi al punto discusso nei paragrafi iniziali: la diffusione del precariato nelle industrie culturali, e in generale la diffusione del lavoro freelance in un gran numero di ambiti professionali, può essere letto come un sintomo dell’impoverimento della classe media e delle sue aspirazioni disattese.

Il secondo quesito è se svolgere un lavoro che si ama sia un ostacolo alla formazione di una coscienza collettiva. A un’analisi puramente teorica si potrebbe rispondere di sì: ambizione e competizione in un contesto che tende ad abbassare salari e tutele per tutti e tutte costituiscono potenzialmente un freno al pensiero e alla strategia trasformativa. La realtà racconta invece una spinta all’organizzazione e alla collettivizzazione delle richieste, alle nuove forme di aggregazione virtuale e materiale delle rivendicazioni e alle forme di rappresentanza ibride. Non sono estranee a queste dinamiche le forme più tradizionali di lotta, come lo sciopero. «Quello di cui c’è bisogno è la definizione di nuovi paradigmi condivisi del valore che stabiliscano nuove modalità di conversione dei capitali. È un processo che può avvenire solo con l’avvento di nuove forme di rappresentanza trasversali» ha scritto a questo proposito Bentram Niessen, su CheFare. Ha inoltre spiegato la portavoce di Art Workers Italia: «Oltre alla forza politica, strategica e comunicativa dello sciopero, è forse ancora più importante oggi ricorrere a questo strumento anche per la sua funzione aggregativa: nella progressiva parcellizzazione delle forme di lavoro contemporanee e nell’auto-sfruttamento che caratterizza lo scenario freelance, lo strumento dello sciopero è il primo passo verso l’auto-organizzazione collettiva, indispensabile per portare avanti le nostre battaglie comuni, sottolineando la natura sistemica delle forme di sfruttamento contemporanee».

Ritorno alla domanda iniziale. Come si concilia il conflitto politico con la passione individuale? L’unica risposta sta nel rifiutare questa dicotomia. Certamente il lavoro creativo consuma tempo, energie intellettuali ed emotive e conserva la sua componente intima e identitaria. Non possiamo permetterci però di evitare di viverlo come un fatto politico, inserito in una dimensione collettiva, fatta non solo di ispirazione ma di lotta, organizzazione e rivendicazione.


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Vive a Forlì e lavora come scrittrice e giornalista freelance. Si occupa di lavoro, tecnologia e questioni di genere; spesso di tutte e tre queste cose insieme. Collabora con l'organizzazione sindacale StreetNet International ed è co-fondatrice e speaker del podcast Anticurriculum.

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