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L’ultra giovanilismo è un inganno14 min read

L’ultra giovanilismo è un inganno

La narrazione consolatoria dell’età maschera un problema sociale

di Lucia Antista

Artwork di Carlo JB

Una volta c’era il mito dell’eterna giovinezza, ora quello dell’ultra giovanilismo.

L’ultra giovanilismo si fa volentieri carico della ricerca dell’eterna giovinezza perché sieri, filler, sport e dieta aiutano l’essere umano postmoderno a rimanere giovane e competitivo. Questo fenomeno riguarda però anche lo stile di vita: insomma, giovani dentro e fuori.

L’ultra giovanilismo è l’ultimo conforto che rimane a chi tenta, con disperata consapevolezza, di contrastare i limiti della propria generazione e del proprio tempo.

Per Millennial e Gen Z è infatti un po’ più difficile essere adulti ma continuare a trovare giustificazioni e usare una dialettica troppo concessiva non è una soluzione.

La verità è che a 30 anni-e-qualcosa si è ancora molto giovani ma non così tanto e non per tutto.

Recentemente ho letto un post su Instagram, anche più di uno, sul fatto che a 30 anni si è ancora troppo giovani per preoccuparsi dell’età e degli obiettivi, ma la verità è che a 30 anni-e-qualcosa si è ancora molto giovani ma non così tanto e non per tutto.

I mutamenti sociali hanno contribuito a ridefinire il momento in cui i giovani entrano nell’età adulta, principalmente a causa della transizione verso un’economia basata sulla conoscenza, che richiede un’istruzione e una formazione più estese e complesse rispetto al passato. Ciò posticipa l’ingresso nel mondo del lavoro, ritardando, ad esempio, l’eventuale genitorialità.

Le crisi economiche hanno avuto un effetto paralizzante sulle generazioni più giovani, creando una ‘sindrome di precarietà’, in cui l’incertezza diventa la norma e la stabilità diventa un lusso e dove le difficoltà economiche ostacolano la realizzazione delle aspettative dell’età adulta.

Tutto ciò finisce per creare una tensione tra le aspettative sociali e la realtà economica, portando a una ridefinizione dell’età adulta stessa.

Le tappe esistenziali che scandiscono le vite dei più si sono spostate più avanti sull’asse temporale sociale ma ciò non significa che i tempi supplementari siano infiniti.

Gli slogan tarocco-marketing “i 40 sono i nuovi 30” e “i 30 i nuovi 20” rischiano di farci perdere di vista la verità ultima, cioè che per il nostro corpo 30 anni sono 30 anni e 40 sono 40, al netto di competenze e lustrini. Non riusciamo a recuperare le tasse universitarie ai fini pensionistici figuriamoci se qualcuno ci scala una manciata di anni solo per aver fatto un dottorato o volontariato in Africa.

I post di questo tipo offrono una prospettiva alternativa e rassicurante perfetta per contrastare quella sensazione di disagio che accompagna chi pensa di essere in ritardo sulla vita. “Puoi tirar tardi alle feste, cambiare paese, cambiare lavoro, cambiare compagno” – recitano come delle réclame – ma la verità è che oggi queste cose puoi farle anche a 40 o 50 o quando vuoi.

Viviamo oramai in una società – questo è vero – in cui si va definendo un nuovo modo di invecchiare. L’età, le energie e le esperienze sono aspetti altamente soggettivi, ogni individuo ha il proprio percorso di vita, con tempi e obiettivi unici, alcune persone li raggiungono prima, mentre altre più tardi, o forse mai.

Il punto non è che a una determinata età devono corrispondere traguardi specifici e vincolanti, ma riconoscere che a 35 anni dovrebbe essere giusto poter realizzare determinati desideri.

Per molti giovani mancano però le circostanze che consentono di raggiungere certi obiettivi, ad esempio comprare una casa o ottenere condizioni di lavoro adeguate al costo della vita. Non è sempre possibile aspettare, per quanto possiamo raccontarcela, l’orologio biologico dell’età tiene il conto: alle ovaie non gliene frega niente se hai fatto un master di II livello a New York.

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Per quanto possiamo raccontarcela, l’orologio biologico dell’età tiene il conto: alle ovaie non gliene frega niente se hai fatto un master di II livello a New York.

Una donna di 20 anni ha in genere 200.000 ovuli; a 30 sono già diventati 100.000; a 40 rimangono circa 2.000.

La scienza ci viene incontro ma conservare gli ovuli non è come aprire un conto con una banca online, il costo medio per il congelamento è di 3000 euro (300 di mantenimento all’anno), una cifra ragguardevole per una generazione che in media non riesce a pagare un mutuo.

I millennial sono stati forse la prima generazione a cui hanno detto potete avere tutto: studiate per il lavoro dei sogni, anzi cambiatene diversi, girate il mondo, fate più esperienze, provate più partner.

Sembra ci siano state solo occasioni da cogliere per loro ma la possibilità, come insegna Kierkegaard, è fonte di angoscia. Disancorati dai centri di provincia, o dai propri centri di gravità, il rischio di perdersi è piuttosto quotato.  

Smaterializzazione e precarietà sono diventate le parole chiave per descrivere i fenomeni sociali della contemporaneità liquida perché gli scenari esistenziali si modificano prima che i nostri modi di agire e reagire si consolidano.

A un certo punto, grazie a Kelly Williams Brown che ha scritto un libro intitolato Adulting: How to Become a Grown-Up in 468 Easy(ish) Steps si è cominciato a parlare delle criticità del passaggio dall’adolescenza all’età adulta. La scrittrice americana si riferiva soprattutto all’acquisizione delle competenze necessarie per vivere in modo indipendente e responsabile della generazione Y, la sua, sconvolta dai cambiamenti socio-economici di portata epocale.

Per la Gen Z la situazione non è tanto diversa perché oltre a raccogliere le sfide della precedente si ritrova in un mondo letteralmente in fiamme.

Dato il successo, la parola adulting è anche entrata nell’Oxford Dictionary per indicare “l’azione o il processo per diventare, essere o comportarsi da adulti; lo svolgimento dei compiti banali o quotidiani che sono una parte necessaria della vita adulta”.

Anni prima, già Jeffrey Arnett, professore ricercatore di psicologia presso la Clark University di Worcester, Massachusetts, aveva coniato il termine “età adulta emergente” per evidenziare il fatto che le persone nella tarda adolescenza e nei loro vent’anni dedicano più tempo all’esplorazione delle possibili direzioni che la vita può prendere.

Più di due decenni dopo, sembra che questa fase di sviluppo si estenda oltre i vent’anni per la generazione Y e Z, dato che giovani e non più giovanissimi stanno ancora lottando per comprendere come affrontare le aspettative dell’età adulta.

Gli anni dedicati allo studio, agli stage, a rincorrere carriere o sogni, hanno reso il giovane medio un esemplare sociologico sui generis.

La crisi abitativa, il costo della vita, i contratti più precari prolungano il concetto di prima giovinezza anche quando questa non c’è più.

Alimentare questa narrazione dell’”ultra giovanilismo” rischia di non farci rendere conto della situazione in cui ci troviamo, cioè che stanno venendo meno le tutele sociali per una vita normale.

Oggi, in media, la vita di un 26enne non è tanto diversa da quella di un 36enne.

Probabilmente entrambi condividono un appartamento o si “svenano” per vivere da soli, facendo i salti mortali per fare carriera e gestire una propria dimensione sentimental-esistenziale.

E se serie come New Girl o Two broke girls hanno sdoganato il concetto di coinquilinaggio o Fleabag quello di essere incasinati, pensarli come la norma non è poi così rassicurante.

Alimentare questa narrazione dell’”ultra giovanilismo” rischia di non farci rendere conto della situazione in cui ci troviamo, cioè che stanno venendo meno le tutele sociali per una vita normale.

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La rete di protezione sociale è diventata sempre più problematica. I sistemi di sicurezza sociale, come l’assistenza sanitaria, le pensioni e le assicurazioni, risultano essere meno accessibili e meno garantiti rispetto al passato. I cambiamenti nelle politiche governative e il crescente carico economico mettono a rischio la sicurezza sociale che una volta veniva considerata un diritto fondamentale per tutti.

Per secoli molte famiglie hanno avuto come obiettivo quello di innalzare il proprio benessere economico lavorando duramente per garantire un futuro migliore alle generazioni successive.

L’identikit del trenta-quarantenne è cambiato nel corso del tempo anche perché la società è diversa. Chiaramente il progresso – sotto forma di vaccini, cura personale, consapevolezza e altre specialità – rende un trentenne (come un quaranta-cinquantenne) di oggi molto diverso da quello di 30, 50 o 100 anni fa.

Abbiamo ereditato il modello dei nostri padri: studiare, trovare un “buon lavoro”, avere una carriera, comprare una casa, un’auto, trovare un partner.

I canonici indicatori dell’età adulta, che segnano un percorso lineare di stabilità e sicurezza, potrebbero aver funzionato per secoli ma non possono essere l’unità di misura della felicità oggi. Siamo passati da una società in cui le fasi della vita erano rigidamente strutturate, soprattutto negli anni ’50 e ’60, ma in parte anche negli anni ’80 e ’90, a un’epoca postmoderna in cui le persone cercano un equilibrio tra la libertà personale e la necessità di punti fermi.

La stabilità esistenziale non è uguale per tutti, c’è chi vive la casa o il matrimonio come zavorre e chi ne ha bisogno ma ciascuno dovrebbe poter raggiungere i propri obiettivi assecondando il proprio desiderio, senza pressioni sociali ma possibilmente con una rete sociale.

La nuova vita adulta è diversa dal passato, è ancora in definizione e forse rimarrà – se non per sempre, almeno a lungo – un processo in cui accettare che – malgrado alcune certezze – non per tutti vi sono gli stessi passaggi e le stesse ancore.

La mia generazione, ma anche quelle che la seguiranno, deve iniziare a pensare in modo diverso perché altrimenti è un perenne triathlon dove ci si ritrova con il fiato corto.

Dobbiamo cambiare la nostra prospettiva su ciò che definisce la stabilità, andare oltre i vecchi modi di pensare e oltre quelli che sono i modelli predefiniti e creare invece un sistema nuovo, meno ingessato nelle sue convinzioni ma pronto a rivedere e cambiare le storture e le disparità che stanno rendendo sempre più difficile essere giovani come non più giovanissimi.


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Giornalista pubblicista, scrive di cultura, arte e attualità per diverse testate, tra cui Artribune e Artslife. Come autrice televisiva ha lavorato per i programmi di La7 e del gruppo Class editori.

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