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Vivere in una bolla4 min read

Questo articolo è estratto da Dylarama, la nostra newsletter settimanale a cura di Mine Studio.
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Ogni volta che sento l’espressione “vivere in una bolla”, penso a questo. Oppure alla terza puntata della quarta stagione di BoJack Horseman, “Fish out of water”. Da qualche giorno si sta parlando di “bolle sociali” per le relazioni umane post-pandemia. Alcuni paesi stanno sperimentando la formazione di piccoli gruppi separati di persone, per allentare le restrizioni sulla mobilità e sul distanziamento e al tempo stesso circoscrivere la possibilità di contagiare un numero troppo alto di persone. Se ne sta discutendo molto nel Regno Unito e negli Stati Uniti, mentre la Nuova Zelanda, il Belgio e il Canada sono stati i primi ad adottare questa strategia, con risultati che, almeno sul breve termine, sembrano essere incoraggianti. Sostanzialmente significa che si possono frequentare solo un numero molto ristretto di persone ed è importante che nessuna di queste abbia contatti ravvicinati con altri individui al di fuori della bolla. Questo apre una questione morale e di fiducia, ma anche di oggettiva praticità, si tratta di un sistema che ha mostrato parecchie criticità nei casi, per esempio, di persone che vivono con molti coinquilini o che svolgono un “lavoro essenziale”. Per non parlare delle persone che invece vivono da sole, lontane o isolate da amici e parenti. C’è anche un altro aspetto: l’ONU ha ufficialmente dichiarato che è a rischio la salute mentale di moltissime persone nel mondo,  la morte onnipresente, l’incertezza economica e il bombardamento di notizie legate alla malattia, stanno causando un’emergenza psicologica globale diffusa, che inevitabilmente sta colpendo soprattutto chi già era considerato esposto e fragile. In questa vicenda il ruolo delle relazioni sociali è fondamentale per la stabilità di milioni di persone, in particolare per i bambini, come spiega questo studio.

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A proposito di bambini, questo articolo scritto per The Atlantic da John McWorter, linguista e insegnante alla Columbia University, approfondisce come la quarantena e l’insegnamento a distanza, potrebbero influenzare in maniera irreversibile (e impari) lo sviluppo del linguaggio e dell’espressività nei bambini della cosiddetta “Corona Generation”. Se invece vi piace stare al passo con i tempi, qui ci sono una serie di nuove espressioni e acronimi entrati nel linguaggio quotidiano con il Coronavirus, così saprete cosa diavolo intende dire qualcuno che vi dirà «sono in WFH», che sta per working from home. Un’espressione che probabilmente sentiremo spesso, visto che pare ci vorrà più del previsto per tornare a una normalità nel lavoro d’ufficio per come ce la ricordiamo BCV (before Corona Virus, okay la smetto). Come sapete, il lavoro di chi c’è dietro questa newsletter, è il lavoro di uno studio creativo, qui e qui ci sono spunti molto interessanti per quel che riguarda il futuro e il senso di questo mestiere.

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Vivere in una bolla, vivere separati, vivere isolati o vivere troppo a stretto contatto con le stesse persone.

In questo articolo c’è la storia di una coppia che ha deciso di intraprendere una relazione aperta dopo la quarantena, mentre questo lungo articolo analizza da un punto di vista filosofico quello che è o sarà il nostro rapporto con il corpo degli altri. Come faremo? E che ne so! Sono sicuro che non vi siete iscritti a questa email per cercare delle facili risposte. Quindi arrivederci alla prossima settimana, con tutto il fardello di incertezze che ci mantiene curiosi e vivi.

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