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Il racconto berlusconiano delle donne18 min read

Il racconto berlusconiano delle donne

Da Drive in a TikTok

di Benedetta Barone

È il 2009 quando Lorella Zanardo pubblica un cortometraggio dal titolo “Il corpo delle donne”. Nonostante non abbia il tono dell’inchiesta e l’autrice sia pressoché sconosciuta, il contenuto si diffonde rapidamente. Gad Lerner lo propone durante la sua trasmissione, L’infedele.

Bastano poche, incalzanti riprese: all’interno dei programmi di maggiore successo del palinsesto televisivo nazionale, decine di ragazze seminude eseguono balletti erotici, gag meccaniche, sfilate. A stento intervengono, si prestano più che altro a battute e allusioni, le interazioni sono ridotte a pose, ammiccamenti, giochi promiscui.

Dice Zanardo: «I volti e i corpi delle donne reali sono stati occultati, al loro posto la proposizione ossessiva, volgare, manipolata di bocche, cosce, seni […] Abbiamo introiettato il modello maschile così a lungo e così profondamente da non sapere più riconoscere cosa vogliamo veramente, cosa ci rende felici. Ci guardiamo l’un l’altra con occhi maschili, guardiamo i nostri seni, le nostre bocche, le nostre rughe come pensiamo un uomo ci guarderebbe».

Un tale, progressivo svilimento dell’immagine femminile nell’arena mediatica era sotto gli occhi di tutti da più di vent’anni, da quando, cioè, Silvio Berlusconi aveva acquistato i suoi primi canali televisivi. Eppure, l’opinione pubblica si scopre sconcertata, divisa, assente: qualcosa è sfuggito. La seconda ondata del movimento femminista degli anni Sessanta e Settanta si era battuto per la liberazione dalle norme repressive sulla riproduzione e sulla sessualità. Che accade nel giro di un decennio?

La seconda ondata del movimento femminista degli anni Sessanta e Settanta si era battuto per la liberazione dalle norme repressive sulla riproduzione e sulla sessualità. Che accade nel giro di un decennio?

Grazie alle manifestazioni, alle lotte, alle rivendicazioni sindacali, le donne erano riuscite ad accedere a livelli più elevati di istruzione, a mestieri e a professioni, avevano ottenuto diritti legali. Quali fattori conducono a quelli che Lorella Zanardo definisce «fenomeni da baraccone di un circo permanente»?

È il 1983 quando Drive in debutta per la prima volta su Italia 1. Alla stessa ora, su Canale 5, va in onda Dallas, il programma di maggiore ascolto tra le reti di Silvio Berlusconi. Il futuro presidente del consiglio, grazie al benestare di Bettino Craxi propone un monopolio alternativo alla Rai teso a imitare il modello statunitense: l’intrattenimento cambia i suoi connotati. Le parole d’ordine sono satira, varietà, costume, il culto ossessivo della propria immagine. In Drive in, la comicità demenziale, boccaccesca, teatrale viene esasperata e condita dalla presenza di un folto gruppo di vallette in divisa. Sono pettinate allo stesso modo, vestono i colori della bandiera a stelle e strisce americana, si esprimono mediante una voce artefatta, flautata, volutamente puerile. I décolleté sono strizzati al punto che quasi escono dai corsetti.

Imbastiscono mascherate, burle, messinscene, dalla cornice sottilmente pornografica.

Quando nel 1988 Striscia la notizia raccoglie l’eredità di Drive in e comincia la sua edizione di telegiornale canzonatorio che dura ancora oggi, si istituzionalizza la vituperata figura della velina.

Quando nel 1988 Striscia la notizia raccoglie l’eredità di Drive in e comincia la sua edizione di telegiornale canzonatorio che dura ancora oggi, si istituzionalizza la vituperata figura della velina. Anche qui, giravolte, passerelle, stacchetti, lap dance. Interpretano infermiere, cassiere, professoresse e amanti obbligatoriamente sexy. Entrano in scena sui pattini a rotelle, lungo gli scivoli, pigolano come bambine, neanche un accenno di serietà, di rabbia o di tristezza mina i loro volti. Le espressioni si fossilizzano in uno stolido, artificiale sorriso.

Un repertorio che si ripete indefesso, sera dopo sera, pensato, anzi, dedicato agli uomini che tornano dal lavoro: irretiti, circuiti, non staccano lo sguardo dallo schermo e soprattutto non cambiano canale.

Il giorno successivo alla morte di Silvio Berlusconi, Massimiliano Parente ricorda così, tra le pagine de il Giornale, questo capitolo della storia della televisione: «Le tette di Carmen Russo, il culo di Nadia Cassini ravvivavano le nostre nascenti fantasie di ragazzi […] Non era la Rai, meno male, e infatti di lì a poco, a inizio anni Novanta, arrivò subito Non è la Rai di Gianni Boncompagni, altro fuoriclasse, anche quello attaccato dalla sinistra bacchettona perché c’erano le ragazzine (ma cosa c’era di più innocente e fresco di Ambra Angiolini?)».

Non è la Rai esordisce nel 1991. Sebbene Ambra Angiolini sia effettivamente giovanissima, non le è sfuggito che per avere successo occorre sposare le regole del gioco. Si aggira sul palcoscenico, al centro di un corteo di donne, tutte poco più che adolescenti. Una scritta lampeggia brevemente sullo schermo e indica i nomi di battesimo, i loro nomi propri – mai un cognome. Centinaia di Carlotta, Francesca, Claudia, Federica che Angiolini importuna, incita, redarguisce, reiterando le smancerie fintamente innocenti di un chiassoso gruppo di liceali intente a scambiarsi confidenze: «Tu dici sempre un sacco di bugie, è vero? Hai fondato la tua vita sulle bugie», dice a una delle concorrenti, la quale guarda l’obiettivo e sporge le labbra in un broncio impertinente.

La televisione si trasforma in una discoteca che dura a tutte le ore del pomeriggio e della sera. L’imperativo categorico è divertirsi, dedicarsi a un edonismo triviale, nel quale nessuno si prende sul serio e i valori condivisi sono perpetrati e tramandati dallo stesso Berlusconi: calcio, canto, barzellette, risate, antifone sessuali, secondo il paradigma illusorio e ingannevole di una perenne atmosfera da banchetto.

L’imperativo categorico è divertirsi, dedicarsi a un edonismo triviale, nel quale nessuno si prende sul serio.

Le donne rappresentano precisi feticci, volti allo scopo di prevenire, solleticare e fagocitare il desiderio maschile. La formula è così popolare che colonizza anche il panorama pubblicitario, la musica pop, la politica, la moda e perfino la medicina, come ricorda Lorella Zanardo. Ogni ospite che tra gli anni Novanta e il primo decennio del Duemila appare in uno studio televisivo mercifica i propri attributi estetici al punto che i gesti, i lineamenti, perfino il timbro di voce risultano falsificati, alterati, gonfiati. Le donne «abdicano alla possibilità di essere l’altro».

La regressione ad ancelle del tutto prive di funzioni intellettuali è tale che all’interno della trasmissione Libero, diretta da Teo Mammuccari, la showgirl Flavia Vento è addirittura tenuta tra le gambe di un tavolo per buona parte della durata del programma. Ha il permesso di uscire soltanto per offrirsi come “premio” al termine di una competizione. I soli scambi verbali tra lei e Mammuccari prevedono puntuali umiliazioni e prese in giro. «Le tettine, le hai lasciate a casa?», «Ma ti hanno operata o sei proprio così?», «Ma allora non sei stupida stupida».

La battuta che gli animatori televisivi ripetono più di frequente alle veline è che «non sono buone a fare niente». In questo modo, si rivendica l’assunto secondo il quale la bellezza è l’unico attributo concesso, un’arma a doppio taglio, impugnata anche per offendere, per suggerire goliardicamente alle ragazze di «restare al proprio posto».

Naomi Wolf definisce le immagini della bellezza femminile come la più potente reazione offensiva al femminismo.

Ne Il mito della bellezza, un celebre testo apparso proprio a metà degli anni Novanta e oggi edito nuovamente da Tlon, Naomi Wolf definisce le immagini della bellezza femminile come la più potente reazione offensiva al femminismo, che cerca tacitamente e subdolamente di annullare tutto ciò che di buono ha fatto il femminismo per le donne sul piano materiale: «Liberate da castità, passività, domesticità, maternità, progredendo sul piano sociale dell’istruzione, dell’autorità e dell’autorevolezza in tutti i campi, ecco una nuova forma di schiavitù: la bellezza e ciò che la bellezza significa, portata ai suoi estremi».

Spaventato dagli effetti delle battaglie degli anni Settanta che avevano, tra le altre cose, conquistato il diritto a divorziare e ad abortire, il sistema patriarcale instaura nuovi strumenti di coercizione e controllo sul corpo delle donne, inedite pressioni. Stabilisce criteri estetici quasi mai scelti o voluti dalle donne e che tuttavia le donne si convincono ad adottare, pena il respingimento dagli spazi pubblici e privati. Questi stessi canoni spesso irraggiungibili di perfezione fisica hanno paralizzato, inibito e influenzato tutte le generazioni a venire.

Non a caso, nel 1974, intervistato in merito alle questioni femminili durante l’edizione del programma Donna donna, Pierpaolo Pasolini dichiarava che la donna si stava senz’altro emancipando, che era giusto si emancipasse. Ma avrebbe dovuto fare i conti con un’umanità che, di pari passo alla sua emancipazione, sarebbe subitaneamente regredita e peggiorata.

L’adozione di comportamenti graditi al maschile fornisce successo, soldi, visibilità in cambio del dono di sé. Era ovvio che alle spalle di un mondo dello spettacolo in cui le donne venivano chiuse dentro vere e proprie scatole di plexiglass si celassero abusi e sopraffazioni.

Il mercato occulto della prostituzione a danno di veline, soubrette e showgirl emerge già tra il 2006 e il 2007, in merito a uno scandalo che viene chiamato Vallettopoli.

Ma solo nel 2011 si scopre la piramide di cene, pagamenti in contanti, gioielli, orge, appartamenti, promesse di contratti e di provini, al cui vertice siede Silvio Berlusconi, non a caso il proprietario di quelle stesse emittenti sulle quali le ragazze vogliono comparire.

Sono passati due anni dal documentario di denuncia di Lorella Zanardo. La coscienza collettiva si scuote, i giornalisti si mobilitano. L’intento però non sembra tanto quello di scoprire la verità, quanto ingozzarsi di dettagli, intercettazioni e testimonianze pruriginose. Le reazioni si depositano istintivamente sulla colpevolizzazione delle ragazze che hanno preso parte, consapevoli e concupiscenti, all’offerta del proprio corpo. È successo anche all’origine del movimento Me Too. Ogni volta che si consuma una molestia o un ricatto, le donne sono chiamate a prestare particolare attenzione alla posizione che assumono, agli atteggiamenti che adottano, finanche alle parole che scelgono di usare. Se non si dimostrano subito caste, innocenti, integerrime piombano all’interno di contesti compromettenti, dove tutto può succedere: lusinghe, prevaricazioni, stupri. E non è concesso loro di mostrarsi interdette, sorprese. Non possono ritrarsi, rifiutarsi, ricredersi. Questo accade perché le strutture di potere appartengono agli uomini, i quali detengono anche la maggior parte degli strumenti economici, politici e di propaganda.

Si torna così al presupposto di partenza, secondo il quale le donne non devono occupare spazio. Se sono belle devono restare ed essere solo belle. Non possono ergersi alla stregua di interlocutrici. Devono pagare il contrappasso alla subalternità.

Oggi, le ragazze che componevano l’impero variegato e disordinato di Berlusconi sono state spazzate via. Perfino le trasmissioni delle quali erano protagoniste sono sparite. Le puntate e le repliche di Colpo grosso e di Mezzogiorno in famiglia sono state sfoltite o eliminate dai siti di Rai e Mediaset. Qualcosa è sopravvissuto su Youtube, ma nel caso di Colpo grosso una scritta avverte: «Questo video potrebbe essere inappropriato per alcuni utenti». Veline, il programma di selezione estiva delle concorrenti condotto da Mammuccari e poi da Ezio Greggio, sembra sparito nel nulla.

Oggi l’attenzione si è spostata dalla televisione ai social network, dove non vi sono conduttori, sceneggiatori o padroni al fianco delle donne e ciascuna sembra libera di essere ciò che desidera, di manifestare e di esprimere la sua identità. In realtà il regime patriarcale sulla bellezza femminile si è ulteriormente raffinato.

Abbiamo rimosso impunemente quella fase politica, sociale e storica del nostro tempo. Da allora, molto è cambiato: si sono succedute una terza e una quarta ondata di femminismo, la parità di genere è entrata nel linguaggio comune, all’interno dei nostri riferimenti quotidiani. Ma ancora non riusciamo a sbrogliare il conflitto che emerge dalle immagini attribuite e imposte alle donne. Oggi l’attenzione si è spostata dalla televisione ai social network, dove non vi sono conduttori, sceneggiatori o padroni al fianco delle donne e ciascuna sembra libera di essere ciò che desidera, di manifestare e di esprimere la sua identità. In realtà il regime patriarcale sulla bellezza femminile si è ulteriormente raffinato. Migliaia di contenuti vengono condivisi in rete minuto dopo minuto e ritraggono ragazze sempre più piccole nell’atto compulsivo di adulare lo sguardo, l’approvazione e le aspettative maschili. Contratte, tese in pose innaturali, ricorrono a filtri che eliminano i brufoli e la cellulite, ad applicazioni che sfinano le cosce, restringono busti e spalle, ingigantiscono borse, seni, occhi. Saranno pure state neutralizzate le veline, ma il paradigma estetico è rimasto invariato. Il modello preponderante, assoluto, divinizzato è quello della bambola. I suoi effetti sono ancora più pervasivi: scatti in primo piano, a figura intera, frontali, allo specchio di donne che tentano di apparire più giovani, più magre, sensuali o infantili, illibate o caricaturali. La televisione si è armonizzata: un certo tipo di condotta non si verifica più. La sopraffazione è in rete, tra i commenti e le interazioni che si accumulano sotto ai post e nelle conseguenti pratiche di adescamento. Si ripropone anche la stessa, subdola trappola morale: nel momento in cui Emily Ratajwoski ha ripudiato l’accoglienza morbosa, fanatica e violenta che l’esposizione del suo corpo ha generato da quando è diventata famosa, tutti hanno replicato con sdegno che l’improvvisa sterzata della modella rappresenta una copertura ipocrita, orientata a ottenere consensi. Se però Elodie, Diletta Leotta, Chiara Ferragni pubblicano foto disinibite, un coro unanime decreta che svendono la loro credibilità, che approfittano del loro personaggio pubblico. E stiamo citando donne in carriera, potenti, riconosciute. Il carico su miliardi di adolescenti invisibili, vittime di una competizione estetica e di un’oggettivazione ancora più accanite, finora ha mostrato le sue conseguenze quando si è diffuso revenge porn o quando una di loro è finita in ospedale a causa di disturbi alimentari, digiuno, anoressia nervosa, depressione.

Gran parte dell’attivismo moderno attribuisce al web un’accezione positiva. Si ritiene abbia contribuito al rovesciamento di tabù, pregiudizi e omertà sessuale. Ed è vero: le donne hanno senz’altro il diritto di mostrarsi come vogliono, come più si piacciono. Ma tutte le ricostruzioni odierne, compresa la recente riflessione di Irene Graziosi a proposito del fenomeno della chirurgia plastica, dimenticano di specificare perché, tra l’infanzia e l’adolescenza, vi è un momento in cui una donna comincia a sentirsi inadeguata, brutta, in dovere di sottoporre il proprio aspetto a un rigido controllo, al desiderio di cambiarlo attraverso diete, interventi, trucchi, prodotti di skincare. La risposta è che le sembianze a cui aspira sono state definite dagli uomini, e tutt’al più soltanto reiterate dalle donne. In assenza di tali sembianze, ancora oggi le donne si persuadono di non valere niente, di essere invisibili, infelici. Cacciate dal palinsesto delle iconografie e delle rappresentazioni virtuali a cui devono rispondere.


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Giornalista, collabora con Linkiesta, si occupa di nuove generazioni e attualità.

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