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La strategia politica di Hello Kitty12 min read

La strategia politica di Hello Kitty

Circondarsi di cose carine per riempire il vuoto

di Federica Giampaolo

Artwork di @lemonbo_y

Negli ultimi anni, piattaforme social come TikTok e Instagram sono inondate da colori pastello e glitter grazie ad una presenza quasi soffocante di milioni di contenuti a tema Sanrio o anime. La loro diffusione non è semplicemente questione di fandom o fini commerciali, ma si lega ad un fenomeno nato molto prima. Di fatto, gli algoritmi fanno semplicemente il loro dovere accrescendone la presenza con continui trend, immergendo i loro utenti in nuovi mondi. Internet si riempie così di video edit, moodboard, e collage di Hello Kitty e i suoi amici, tra cui immagini su binarismi di coppia tra Kuromi e My Melody, o semplicemente estetiche giapponesi ispirate agli anime e agli scenari urbani di Tokyo e Kyoto.

L’enfasi degli ultimi anni sulla Sanrio-mania e sull’influenza degli anime mette in luce quale sia l’immagine generale ed occidentale del Giappone, ma allo stesso tempo fa chiarezza su un aspetto globale che, di fatto, spiega il successo della cosiddetta kawaii diplomacy.

Il concetto di kawaii diplomacy, ovvero “diplomazia del carino”, non è altro che una forma di negoziazione strategica.

Secondo Christine R. Yano, che ne ha coniato il termine, il concetto di kawaii diplomacy, ovvero “diplomazia del carino”, non è altro che una forma di negoziazione strategica. Il suo obiettivo è quello di far percepire a livello globale il Giappone come un’entità gentile, servile e in parte anche infantile. Esso funge da soft power, e Hello Kitty, entrata nel mercato verso la fine degli anni ‘70, ne è l’origine e la principale arma. Dopo le sconfitte della Seconda Guerra Mondiale e il suo passato autoritario, il governo giapponese ha tentato tutto il possibile pur di redimersi e dimostrare al mondo la nascita di una nuova Nazione. Il branding politico Cool Japan, nato per mostrare al “pubblico” locale e internazionale una nazione pulita, affidabile e interessante, ne è un ulteriore esempio. Oggi il Paese viene visto come trendy, sicuro e adatto ai giovani grazie alle diverse vie mediatiche e culturali, che trasformano il turismo e l’industria dell’intrattenimento, come il mondo idol o degli anime, nei principali motori economico-politici.

Grazie all’enorme influenza che la cultura pop giapponese ha avuto negli ultimi tempi, sta emergendo un forte interesse globale per i suoi prodotti, nonostante la sua natura tenda ad essere più politica che culturale. Un interesse cresciuto particolarmente con la pandemia, le cui ripercussioni, in particolare isolamento e solitudine, hanno aumentato il desiderio di serenità promessi dagli scenari nipponici kawaii.

Nonostante il termine si sia sviluppato con un certo riguardo sul caso Hello Kitty, il suo campo può essere esteso all’intera industria mediatica, che si fonda su un marketing preciso per promuovere altri prodotti, come animazione, moda, programmi televisivi e non solo. Alla base del concetto di kawaii, ovvero “carino”, vi è un senso di innocenza e nostalgia, che lega sentimentalmente i consumatori al prodotto. Quest’ultimo si allontana dalla mondanità e dalle responsabilità, trasportando il consumatore in una sorta di ritorno emotivo alla semplicità dell’infanzia o ad un senso di calore. Ed infatti, nonostante la sua natura politica, la kawaii diplomacy rappresenta un grande specchio sullo stato della società di oggi.

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Il periodo post-pandemico ha messo in luce i sentimenti d’irrequietezza, isolamento e inferiorità che rappresentano alcune delle conseguenze principali di un mondo capitalista e incerto. Ma proprio grazie allo stesso consumismo che ci tiene schiavi tentiamo di trovare un senso di tranquillità, anche se breve, per far fronte ad una condizione instabile. Un approccio e una comunicazione infantile trasmettono messaggi positivi, dove le azioni più semplici vengono premiate perché parte della propria crescita personale e, soprattutto, le nostre lacune e i nostri errori vengono accettati perché, proprio come bambini, sappiamo di avere ancora tempo per apprendere e maturare. L’esperienza kawaii sembra temporanea, ma regala un’intimità emotiva che elimina la distanza psicologica e crea un’illusione di vicinanza con luoghi ed identità. Ci si affeziona ai suoi prodotti, rendendoli quasi necessari e parte della quotidianità.

Le “vittime” di questo soft power appartengono a target ben precisi: Millennial e Gen Z di una identità demografica specifica, interessata ad elementi tipicamente femminili. Ad essi si aggiunge il loro coinvolgimento con i social media, i quali alimentano la romanticizzazione e idealizzazione di persone e scenari. I feed si riempiono di outfit rosa a tema Sanrio, immagini dove dolci personaggi dei cartoni sono intenti a compiere qualsiasi attività con cui immedesimarsi, e vengono aperti sempre più account di successo per condividere collezioni od oggettistica. C’è da precisare che, poiché si tratta di un mezzo di simil-propaganda politica, coloro che cadono nell’escapismo kawaii sono principalmente occidentali. La cultura kawaii, infatti, assume diverse connotazioni e sfumature in Giappone, dove la causa resta la stessa, ma le reazioni possono variare. Queste ultime oscillano tra una sua visione positiva e anti-sessualizzante, e una critica alla sua eccessiva infantilizzazione del corpo e dell’identità femminile.

C’è da precisare che, poiché si tratta di un mezzo di simil-propaganda politica, coloro che cadono nell’escapismo kawaii sono principalmente occidentali.

Nel 2014, in onore del 40esimo anniversario di Hello Kitty, la città di Los Angeles ha festeggiato con un piccolo Hello Kitty Con, dove Olivia B. Waxman ha chiesto ai partecipanti del perché amassero così tanto la gattina. Una 35enne americana ha ammesso di aver reso Hello Kitty un suo hobby per tirarsi su di morale, perché “è un modo di sfuggire allo stress lavorativo, a tutti gli obblighi da adulto.” Jill Koch, l’allora Vicepresidente del Brand Management & Marketing della Sanrio, e Yuko Yamaguchi, Head designer di Hello Kitty dal 1980, intanto vendono un prodotto, definendolo “empowering perché [Hello Kitty] può essere tutto ciò che vuole”, e che “le donne hanno la sensazione che lei ascolti, […] le fa sentire capite.”

La moda lolita, sottocultura giapponese sviluppatasi negli anni ‘90, rappresenta un’ulteriore sfumatura del fenomeno kawaii. La sua più grande aspirazione è d’inscenare un ritorno all’infanzia attraverso abiti da bambola in stile simil-vittoriano o Roccocò. Durante una scena di Kamikaze Girls (2004), uno dei suoi film cult, la protagonista Momoko Ryugasaki sa di essere destinata alla solitudine, ma ammette che, una volta giunto il suo momento, non avrebbe avuto paura poiché sarebbe stata circondata da oggetti graziosi e sepolta in un abito “baby” (un tipico modello d’abbigliamento lolita). La romanticizzazione della propria vita attraverso l’oggettistica e l’abbigliamento kawaii riesce a motivare chi ne usufruisce, perché fa sentire loro parte di uno scenario poetico dove non tutto è perduto o senza senso.

Questo mondo non solo ci fa sentire più felici, ma ha anche un impatto sul nostro comportamento. Restringendo le capacità di attenzione, finiamo in un loop rosa che ci allontana da tutto il resto. Come sostiene Hiroshi Nittono, un’estetica graziosa si fa portatrice di emozioni positive, ma soprattutto di supporto, per attività di cura personale e di interazione sociale. Non solo rende gli oggetti più amichevoli, ma induce gli utenti a vedere le cose da un’altra prospettiva, anche solo per affrontare la giornata, tra lavoro e responsabilità. Slogan motivazionali, in parte anche terapeutici, accompagnano le vite delle sue vittime, le quali possono brevemente auto-convincersi di poter superare tutto. Non a caso, come enfatizza Nittono, i social media giocano un ruolo fondamentale in tutto questo.

Le generazioni di oggi sono alla ricerca di una sorta di terapia immediata, nonostante porti spesso a visioni irrealistiche dei loro problemi e modi per affrontarli.

Questa forma di escapismo infantile non è, tra l’altro, un fenomeno raro o poco comune, bensì una sua versione molto più colorata. Già da alcuni anni moltissimi adulti s’invaghiscono di cartoni animati, perché attraverso questi ultimi tentano di lavorare sui vuoti e le preoccupazioni scaturiti dalla loro stessa infanzia. Bluey, un cartone animato australiano popolare soprattutto nei contesti anglofoni, grazie alle sue storie dolci e compassionevoli riesce ad attrarre anche l’attenzione di adulti, principalmente Millennial, che desiderano guarire il loro inner child. Le generazioni di oggi sono alla ricerca di una sorta di terapia immediata, nonostante porti spesso a visioni irrealistiche dei loro problemi e modi per affrontarli.

Da un lato tutto ciò porta serenità, ma dall’altro mette in dubbio la possibilità di vivere un rapporto sano con le proprie emozioni, rivelando una sensazione di solitudine e nichilismo dalla quale fuggire attraverso una poeticizzazione del tutto. Come molti dei fenomeni appartenenti ad un contesto post-globalizzato e/o digitalizzato, i consumatori si lasciano ai voleri delle grandi aziende pronte a vendere un’immagine felice e dall’estetica ammiccante, a tratti romantica, per poter scappare da una realtà più cupa o per approcciarsi ad essa con uno sguardo diverso.

Tuttavia, il cadere vittima di questo consumismo così rosa risulta difficile da biasimare, almeno considerando lo stato attuale del mondo. In un contesto dove le nuove generazioni non si sentono al sicuro e sono private dei mezzi per poter capire sé stesse e affrontare i problemi, ci si adatta diversamente. Nonostante l’idea alla base sia capitalistica e politica, la kawaii diplomacy è diventata col tempo una terapia poliedrica per chi si affeziona al suo immaginario. In mezzo al pubblico infantile a cui sono indirizzate gattine che pesano poco più di due mele e guerriere vestite alla marinara che condividono messaggi d’amore, forza e inclusione, c’è un adulto che cerca rimedio alle proprie necessità emotive.

Le vittime della kawaii diplomacy, nel proprio consumismo, non vedono la strategia politica alla base, ma la possibilità di farsi spazio in un mondo che non le vuole o nel quale si sentono inadeguate. Alla sua base c’è la ricerca di motivi e mezzi per stare bene con sé stesse e gli altri. E, come bambini, cercano figure platoniche e parasociali nella speranza di essere cullate per la buonanotte prima di un domani incerto.


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